Ridere fino alle lacrime.
 Le nuove vie del comico a fumetti.
Questa è la trascrizione dell’incontro Ridere fino alle lacrime. Le nuove vie del comico a fumetti, che si è tenuto il 26 novembre 2017 durante il festival BilBOlbul.
Partecipano: Dottor Pira, Alessio Spataro, Fabio Tonetto
Modera Matteo Gaspari.


[Matteo] Buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro che abbiamo intitolato “Ridere fino alle lacrime”. Quest’anno tra i vari focus di BilBOlbul c’è la comicità, la risata: la grande mostra di Jacovitti, la mostra dedicata a Fabio Tonetto, il convegno di studi su Töpffer… In questo incontro intendiamo discutere con tre autori molto diversi di cos’è e come funziona la comicità a fumetti. Ne parliamo con Fabio Tonetto, autore del surreale umorismo di Rufolo, Alessio Spataro, che ha una lunga tradizione di satira a fumetti, dalla Ministronza alle vignette su Beppe Grillo, e Dr. Pira, creatore dei Fumetti della Gleba e dell’amatissimo Gatto Mondadory. Sono tre autori completamente diversi che ci permettono di riflettere sulla comicità in senso allargato: una comicità che comprenda quindi anche ironia, satira, umorismo…
E proprio per osservare la questione da diverse angolazioni abbiamo chiesto ai tre ospiti di scegliere delle immagini, sia del passato che più contemporanee, che ben rappresentassero quella che per loro è comicità a fumetti. Quindi comincerei chiedendo al Dr. Pira, e poi a scorrere, di commentare le immagini che ha scelto.

[Dr. Pira] Dunque, ho scelto un albo di Tigrotto, che era uno di quei cloni di Topolino che uscivano negli anni ‘60 e ‘70. Ce n’erano miliardi, il più famoso era Tiramolla, ma questo qui era il più oscuro. Queste tavole le ho prese da un albo di Santini, che era l’autore che disegnava peggio, ma anche uno dei pochi che si firmava. Ne era fiero! Ora non so se parlare proprio di comico pensando a Tigrotto, perché più che comico ha qualcosa di misterioso… non so come definirlo, ma quell’aura di mistero a me faceva molto ridere. Le trame erano completamente casuali e a tratti inspiegabili, ma a me faceva un po’ l’effetto di vedere uno per strada che a un certo punto fa una capriola e va a sbattere contro una macchina. È una cosa assurda che non t’aspetti, ed è una cosa che può essere tragica ma anche molto comica, a seconda dei gusti. Questi fumetti li trovo bellissimi, magari li trovavo ad una bancarella a 1 euro e mi stupivo di quanto fossero belli. Molta altra gente con cui parlavo mi diceva: “Ah! Ma tu dici che è bello in maniera ironica!”. Questo è uno dei grossi scogli… Non so se vi è mai capitato.

[Fabio] Sì, capita anche a me.

[Dr. Pira] Quella parte di pippe mentali di uno che dice: “Dici che quello è bello, ma lo dici ironicamente così fai capire che sei intelligente”. No. È bello è basta. Poi è bello per me e non è detto che sia bello per tutti.

Invece il fumetto contemporaneo che ho scelto è un fumetto giapponese che si intitola Enomoto, e ha una comicità che può essere fraintesa. Per esempio ci sono le scoregge, le tette… Tutte quelle cose lì, un po’ scurrili. Ma sono viste da un giapponese, quindi senza quel senso di pudore che abbiamo noi. Qui è come se ci fosse un campo molto più ampio di cose che si possono utilizzare per far ridere. A me fa ridere tantissimo. Per esempio qui loro vogliono toccarle le tette e lei risponde: “Ma certo, tanto se anche le toccate mica diventano più piccole”, e loro spaccano il tavolo con la faccia in quella maniera lì, con tutte quelle cose dinamiche del fumetto giapponese usate per delle robe senza senso. E poi prendono quell’oggetto che è il risultato dell’impatto della faccia col tavolo e provano a venderlo. È un tipo ci comicità che non è verbale. E speso ti chiedi come gli è venuto in mente di fare quella roba. Quel comico misto a stupore… non so, non ci sono definizioni. Per il drammatico abbiamo mille sfumature di termini, di tecniche, mentre per il comico l’unica definizione è “fa ridere”. Il come è ancora da scoprire…

[Fabio] Non so se conoscete la storia Disney più famosa realizzata in Italia. Si intitola L’inferno di Topolino ed è la parodia della Divina Commedia di Dante Alighieri. Bene, questa storia qui è realizzata dagli stessi due autori: Guido Martina ai testi e Angelo Bioletto ai disegni. E la cosa sorprendente di questa storia è che non conoscevano i personaggi. O meglio, li conoscevano ma in maniera molto superficiale, quindi ci sono delle frasi appiccicate proprio perché ci sono degli stereotipi da seguire. Quindi c’è Gambadilegno che è cattivo e dice cose cattive, Pippo è stupido e quindi dice cose stupidissime, Topolino e Minnie sono i protagonisti e basta. Queste cose oggi ai miei occhi risultano goffe, e proprio per questo comiche, come chiamare il posto dove vivono i cattivi “il castello delle maledizioni”: è una cosa che si carica involontariamente di una certa ironia. Oppure c’è Minnie che festeggia il suo compleanno il 29 di febbraio e dice frasi del tipo: “Non mi sento così felice da quando abbiamo dato fuoco a casa di Gambadilegno”. Tutto è un po’ così, estemporaneo. Secondo me andrebbe letta per capire di cosa si tratta, perché per me è una fonte di ispirazione. Mi piacerebbe riuscire a riportare nelle mie cose quello spiazzamento che trovo all’interno di una storia del genere. L’ho scelta per questo.

Poi c’è è Wally Gropius di Tim Hensley, un fumetto del 2010 che fra virgolette può sembrare vintage, anche se per me non lo sembra… È un mash up di varie cose: Archie Comics, Harvey Comics… Quello che da noi si intitolava Zero in condotta, il titolo più irritante della storia. Wally Gropius è una storia che contiene della satIra, che è una forma di comicità che non mi riguarda assolutamente, ma la critica che c’è qui è completamente integrata alla narrazione. Lui è un ragazzo ricco, una rockstar, mentre suo padre commercia gas. E il padre vuole che Wally sposi la ragazza più triste del mondo, che al matrimonio così dichiarerà che anche le persone sull’orlo del suicidio possono essere felici, così lui può pubblicizzare il suo gas. Questa storia mi piace perché è come se creasse un mondo parallelo. Non è che faccia ridere in senso stretto, ma è un fumetto che ti spiazza e ti porta dentro al suo mondo. Che è una cosa che apprezzo molto quando leggo, in generale.

[Alessio] Intanto come avrete già capito sono stati selezionati per un dibattito sul comico, un po’ per contrasto, gli autori di fumetto che parlano nella maniera più noiosa di tutti.

[Dr. Pira] Perché non puoi spiegare le barzellette!

[Alessio] È tutta una messinscena fatta apposta per creare un po’ di contrasto, di pathos, tra le immagini che proiettiamo e l’immagine che diamo di noi.
Comincerei dicendo che ho selezionato pochissime immagini, cioè una per ogni periodo storico, perché mi sembrava interessante sottolineare quanto la comicità di una singola vignetta, di un singolo fumetto, sia misurabile solo ed esclusivamente in rapporto a chi fruisce quest’immagine. La comicità è molto soggettiva. È ovvio che noi, che scegliamo di disegnare determinati personaggi, lo facciamo perché ci sembra che in quel contesto, per quelle pubblicazioni, facciano ridere. Però molto spesso è più chiarificatrice la reazione delle persone. Perché l’obiettivo non è raccontare quel personaggio o quella storia, ma mandare un messaggio e vedere che reazione ha il pubblico.

La prima immagine che ho scelto è una vignetta di un libro satirico che veniva distribuito nel ’44 circa alle truppe statunitensi. L’autore è completamente anonimo. È ovviamente la classica battuta che fa riferimento alla sodomia come modello di sopraffazione, ma in quel determinato contesto storico questa vignetta aveva uno scopo ben preciso. L’intenzione è di creare, in maniera totalmente sessista e totalmente omofoba, una risata molto terra terra, un po’ pruriginosa, nelle truppe alleate: fino a pochi anni prima gli Stati Uniti avevano tranquillissimi rapporti diplomatici con il Terzo Reich. E l’odio che andava innestato nelle truppe non poteva passare dal dipingere il nemico come il razzista quale era o come lo stragista quale è stato. Gli Stati Uniti hanno continuato ad avere rapporti con altri Paesi fascisti anche dopo la guerra, con la Spagna di Franco per esempio, quindi il fatto che quei paesi torturassero e ammazzassero non poteva essere la giustificazione. Quindi questa vignetta l’ho scelta proprio perché non fa ridere, o almeno non fa ridere me, ma in quel determinato contesto era utile per degradare l’avversario, degradarne l’immagine. E basta. Tutto qui.

[Matteo] Il discorso che fai sul modo in cui l’immagine viene recepita si collega molto bene all’immagine contemporanea che hai scelto.

[Alessio] Infatti non è un caso che io abbia scelto delle immagini che hanno avuto una reazione molto forte, o comunque che aveva l’intenzione di suscitare una reazione forte, divisiva. La seconda, infatti, è una vignetta che viene dalle pagine di Charlie Hebdo, sicuramente la conoscete tutti. È obiettivamente una vignetta abbastanza cruda, che sicuramente non è fatta con l’intenzione di far ridere, o almeno non solo. E questa vignetta ha suscitato in Italia delle reazioni totalmente scomposte, totalmente illogiche, semplicemente per la riduzione a grottesco della tragedia. Può sembrare una presa in giro cattiva, cinica e inutile, alle vittime del terremoto. Invece usa lo stereotipo dell’italiano e della pasta per attaccare chi le quelle case le ha costruite a quel modo. Quello che fa ridere, in questo caso, è stata proprio la reazione scomposta degli italiani che non hanno colto il sottotesto critico della vignetta. Mi ha fatto molto ridere questa scena del sindaco fascistoide di Amatrice che addirittura ha querelato Charlie Hebdo… Io me lo immagino – non so come vadano a finire queste cose, ma me la immagino una futura richiesta di estradizione per i vignettisti francesi. È talmente assurdo che è divertente.

[Matteo] Questo che dici riguardo la reazione del pubblico mi fa pensare a una cosa che si sente spesso, e cioè che la legittimità di una battuta dipende dalla sua efficacia. Nel senso che a parità di argomento una battuta è legittima o no a seconda del fatto che faccia ridere o meno. Ma non si può sapere in anticipo l’effetto di una battuta, lo puoi solo vedere a posteriori. Quindi quali sono gli input che vi spingono a disegnare una cosa invece che un’altra?

[Dr. Pira] Per me è qualcosa che è cambiato molto nel corso del tempo. È stata una sorta di ricerca, diciamo. All’inizio, nel ’97-’98, quando ho cominciato a fare i primi fumetti, mi piaceva la provocazione. Mi divertiva e mi è sempre piaciuto fare cose estreme. Ho fatto per esempio una serie intitolata Capitan Giustizia in cui l’eroe era un nazista che ce l’aveva con tutte le minoranze. Ma anche con minoranze non esistenti, come i possessori delle Smart. Ma non mi va più di fare quel tipo di cose, ho già fatto il giro su quella giostra. Quello che mi capita è che mano a mano provo dei meccanismi che poi a un certo punto mi stufano. Ora sto sperimentando in questa direzione, cose tipo il Signor Berutti. Questo è un tipo di comicità che esce quando hai scartato tutto il resto: non c’è una battuta che so già che funziona, non c’è una spiegazione ironica standard che so già farà ridere. Ho tolto tutte quelle cose perché le ho usate altre volte e non m’andava più. E il risultato non so spiegare perché funziona, è un mistero. La risata in sé è un mistero! Non sappiamo perché la gente ride, siamo l’unica specie che ride. E anche questa cosa fa ridere, volendo.


Però mi è venuto in mente un esempio di qualcosa che mi ha fatto molto ridere e potrebbe forse spiegare questo tipo di comicità. Tanti anni fa ero a un concerto in un centro sociale di Alessandria, c’era il punk, c’era il pogo… All’epoca non c’erano ancora le macchine fotografiche digitali, ma c’era questa ragazza con una reflex costosissima. Un mio amico, particolarmente brillante, è andato da questa ragazza e le ha chiesto di prestargli la macchina fotografica e lei inaspettatamente gli dice di sì. Lui prende la macchina, va verso il palco, sale sul palco e, buttandosi sulla folla, scatta una foto. Ho visto il flash. Lui si è distrutto la faccia, perché tutta la gente s’è spostata, ma non le ha distrutto la macchina fotografica. L’ha restituita, lei ha detto “grazie”, e lui non ha manco mai visto la foto. Quello che trovo geniale è che non ha fatto quella cosa per spaccare la macchina fotografica, non l’ha fatto per provocare la ragazza, non stava cercando di fare qualcosa di distruttivo o di aggressivo, che sarebbe stato più facile e avrebbe fatto più ridere nell’immediato. Quello che ha fatto aveva qualcosa in più. Doveva farlo e basta, non so per quale motivo. E quella cosa mi è rimasta impressa, perché è un mistero.
Un fumetto come questo, quando l’ho fatto poi per qualche mese me lo sono portato dietro, dentro una cartellina che ho per disegnare. Ogni tanto me lo guardavo ed ero contentissimo d’averlo fatto, perché c’è una serie di cose che ancora non so spiegarmi e proprio per questo mi piace. Molti miei amici a cui lo mostravo, quando gli dicevo che era il mio miglior fumetto mi rispondevano: “Ahahah, lo dici ironicamente”. No cazzo! Non lo sto dicendo ironicamente: è la cosa più bella che ho fatto per davvero!

[Matteo] Girerei subito la domanda a Fabio, perché mentre lui diceva del mistero e dell’effetto comico, ho subito pensato alle tue cose.

[Fabio] In che senso?

[Matteo] Nel senso che continuo tuttora a non capire perché i tuoi fumetti mi facciano ridere.

[Fabio] Ah, altrettanto! Io non ho assolutamente intenzione di far ridere nessuno. Mi spiego meglio: mi sorprende che facciano ridere, perché io sto solo tentando di raccontare quei personaggi per quello che sono. Faccio una specie di cronaca del loro mondo, e quello che succede a questi personaggi è assolutamente normale nel loro mondo. Se per esempio in questa storia Rufolo è innamorato del responsabile delle acque, che è questa mela, però nel frattempo la mela si innamora del bruco… boh, che devi farci? È così. Cerco sempre di mantenere il carattere dei personaggi. Poi sono contento che riescano a far ridere…

[Matteo] Ci riescono, ma in ugual misura fanno anche un sacco di tristezza.

[Fabio] Perché quelle che succedono sono di fatto delle questioni drammatiche. Ovviamente se le fanno dei funny animals risultano comunque divertenti, però… Comunque molte storie partono da delle suggestioni. Qui c’era la volontà di dare dignità al personaggio del Brucomela, quello delle giostre che tutti conoscete. Volevo dare un riconoscimento a Tamagnini, che è il designer del Brucomela di cui tanti giostrai hanno abusato: il Brucomela è famoso in tutto il mondo ma nessuno sa chi l’ha creato. E quindi questa è una storia omaggio a Tamagnini.

[Matteo] A questo punto sfrutto una cosa che Fabio mi ha detto a Lucca: “Io guardo la realtà in modo divertito”. Me la sono segnata questa frase, per non dimenticarmela. E mi è tornata in mente leggendo la satira di Alessio. Tu guardi la realtà in maniera divertita o in maniera incazzata?

[Alessio] Per forza di cose devo guardare alla realtà in maniera divertita, anche se ci sono cose che mi fanno arrabbiare o intristire, perché altrimenti non riuscirei a disegnare delle vignette che suscitino, almeno in qualcuno, una qualche risata. Questa vignetta che ho qui alle spalle è l’esempio più calzante. Quando c’è stata la tragedia a Parigi alla redazione di Charlie Hebdo, tutti i giornali commentavano e parlavano, tantissimi a sproposito. A un certo punto viene da me una giornalista che mi intervista e poi mi chiede una vignetta nella quale dovevo “interpretare a modo mio la vicenda”. E io ho subito pensato alla religione, al fatto che la chiave era un culto dogmatico verso una verità precostituita che porta alcune persone ad ucciderne delle altre. Altrimenti non ci sarebbe nulla di razionale, non esiste una motivazione razionale per una strage d’innocenti. E quindi ho disegnato questa vignetta totalmente noiosa. E allora c’ho aggiunto Grillo, che è rappresentante di una religione che in Italia è data più o meno al 27%. Ma era ancora totalmente noiosa, una critica banale alla religione alla quale ho aggiunto un elemento provocatorio e basta. Poi a un certo punto ho aggiunto Quelo, che è il rappresentante della religione più innocente di tutte. Così assieme alle reazioni dei grillini, che mi dicevano “non nominare il nome di Grillo invano”, ho ricevuto anche attestati di stima, paradossalmente, dagli adepti di Quelo. Ho associato il loro dio ad una strage, e mi ha fatto molto ridere che proprio quelli che avrebbero dovuto rimanere più offesi mi avessero invece fatto i complimenti per la vignetta.

[Matteo] In chiusura, chiederei a ognuno una cosa molto specifica sul rapporto della realtà con la comicità. Cominciando con Dr. Pira e il suo Gatto MondadoryGatto Mondadory è un racconto archetipico, che segue i precetti del viaggio dell’eroe e di tutta la letteratura eroica, ma al contempo riesce a far ridere e a dire qualcosa sulla realtà. Com’è che attraverso il topos del viaggio dell’eroe riesce comunque a divertire, e attraverso la risata riusciamo a imparare qualcosa da Gatto Mondadory?

[Dr. Pira] Eh. Non so se abbia aiutato a capire delle cose. Il primo Gatto Mondadory era il mio primo libro lungo, avevo deciso di fare un fantasy perché mi sembrava il genere con la struttura più fissa. Mi serviva quel tipo di struttura perché reggesse alla durata. Molta roba comico-demenziale diventa subito noiosissima da leggere, perché si perde nel concatenare una serie di gag e basta. Quindi per fare un libro avevo bisogno di una struttura molto chiara, che veniva in questo caso dalla teoria classica che si studia al Dams, L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, robe di antropologia… Però ho voluto combinarla in maniera diversa, usando elementi che non ti aspetti per vedere cosa esce fuori. Quindi ho deciso di fare un fantasy però mettendoci i telefonini. Il problema che dà inizio alla storia è che al re cade lo smartphone, e quindi il regno potrebbe cadere nel caos. Questa era l’idea di base.
Poi il titolo, Gatto Mondadory, mi era venuto in mente un mattino e mi divertiva l’idea di mantenere quel nome per tutta la trilogia. Primo nome, completamente casuale, e mantenerlo per i tre libri. Ma a parte questo, a parte l’improvvisazione e gli elementi casuali che mi fanno ridere e che inserisco nelle mie storie, c’è comunque una struttura, così quando leggi hai idea che si sta andando da qualche parte anche se le cose che accadono possono essere completamente inaspettate. E l’operazione stessa di fare un libro di questo tipo l’ho esagerata andando apposta a fare un viaggio, una quest. Sono andato in Norvegia e ho camminato per 200 chilometri perché dovevo fare un libro fantasy e quindi volevo fare una quest. Quindi sono andato in Norvegia a cercare gli gnomi.

[Matteo] E li hai trovati?

[Dr. Pira] Mi sembra di esserci stato molto vicino, però non li ho visti. Ma parlando di realtà, mi piace fare i fumetti anche in condizioni assurde. Tipo andare in posti lontanissimi in bici, oppure in cima a una montagna e dover tornare indietro prestissimo perché poi fa buio. Mi piace disegnare in queste condizioni, è così che mi vengono le idee migliori. Invece fare un libro è un’operazione più lunga, quindi quel lato assurdo lo puoi espandere. Ed è così che mi è venuta l’idea, allora non lo capivo ma adesso mi è più chiaro, che certe cose si dicono per scherzo ma in realtà si possono fare davvero. Molto della visione che abbiamo della realtà normalmente è una delle tante visioni di cose che si possono fare. Quello che mi fa ridere è pensare che ho fatto un romanzo a fumetti i cui presupposti sono che si intitola Gatto Mondadory e che è un fantasy coi telefonini, e che sono andato in Norvegia a farlo. Però l’ho fatto veramente! Questo, quando vado a dormire la sera, mi fa pensare: “Ah, che bello aver fatto queste cose, cose che sono sicuramente possibili ma che raramente uno si mette a fare”.

Ho fatto da poco un libro sul relax, sono andato a disegnarlo in spiaggia, alle terme… Ho perso due tavole perché sono finite dentro una vasca termale. Ed era una ricerca sul relax. Avevo scritto questa cosa a Fumettologica per quando sarebbe uscito, e loro giustamente avevano scritto: “L’autore afferma ironicamente di essere andato a disegnare questo libro in spiaggia”. E lì ci avevo discusso perché ho detto: “No! Questa è ricerca!”, e nel momento stesso in cui dicevo che era ricerca, per quanto fosse la verità, veniva da ridere anche a me.

[Matteo] Ad Alessio invece vorrei chiedere se ci sono dei limiti alle cose su cui si può ironizzare, alle cose che puoi disegnare.

[Alessio] La risposta è molto semplice. I limiti alla satira ci sono, e sono semplicemente legati a quando una persona ti può denunciare. I limiti sono le leggi. Se fai un fumetto satirico e nessuno ti querela, nessuno ti cerca sotto casa e ti spara, perché purtroppo succede anche quello, la satira è libera. È solo quando c’è una reazione contraria che cominciano i limiti. Detto questo, i contenuti e i messaggi, oppure le rappresentazioni con cui scelgo di giocare, non devono per forza essere o politicamente corrette o politicamente scorrette secondo una serie di principi universali. Sono tutti, dal primo all’ultimo, politicamente corretti rispetto al mio modo di pensare, ai miei limiti e alla mia piccolissima e criticabile coscienza civica. Sono stato accusato di esagerare quando ho fatto il fumetto sulla Ministronza, Giorgia Meloni. Sono stato accusato di sessismo perché ho ridotto a sessuale e grottesco il personaggio politico. Mi sento però d’esser stato molto corretto rispetto al mio modo di vedere: ho rappresentato una donna sì in maniera grottesca, così come tantissima satira negli anni e nei decenni ha fatto con i politici, però non l’ho rappresentata in chiare scene di sottomissione. Al contrario, lei è quella che attua la sottomissione, mettendo in atto una rete di comando che sottomette sessualmente le persone che le danno spago. Oppure quando ho deciso di rappresentare Grillo con la svastica tatuata sul braccio, è ovvio che faccio riferimento a una cosa che non esiste, è un’esagerazione. Ha a che fare con quello che ho deciso essere il mio vocabolario, che sta dentro a tutta una serie di limiti che io mi sono dato, anche se a prima vista non sembra. Sono totalmente convinto che qualsiasi autore satirico debba avere dei limiti che devono essere soltanto i propri.

[Matteo] Per concludere con Fabio, prima dicevi che non hai assolutamente intenzione di far ridere. Solo che l’effetto è comunque quello. Per esempio, tra gli originali esposti alla tua mostra c’è un tuo disegno molto antico: un foglio con il logo di Topolino e, in completo campo blu, è disegnato Paperino. Mi ha fatto ridere molto, e ci ho ritrovato molti elementi che sono diventati il tuo stile. Cos’è che ci diverte di queste cose che fanno ridere anche se non fanno ridere?

[Fabio] Hai fatto un esempio molto antico! Probabilmente è un disegno di ventinove anni fa… Lì volevo fare semplicemente una copertina di Topolino. E su Topolino, anche se c’è scritto Topolino, spesso in copertina c’è Paperino, o Zio Paperone, o Pluto. Quindi non so, era tutto lì. Ma è vera questa cosa. Fin da ragazzino mi sono reso conto che quando provavo a far ridere volontariamente non ci riuscivo. Sono una capra totalmente incapace. Invece quando butto giù qualcosa spontaneamente riesco ad ottenere un risultato. È molto sempLice, ma non è voluto. Per esempio le mie storie sono scritte quasi come un flusso di coscienza. Ovviamente ci sono degli aggiustamenti qua e là, faccio dell’editing o cambio alcune battute, però di fatto tento di raccontare nella maniera più spontanea possibile e gli do quella veste grafica che è secondo me il veicolo più efficace per far passare quello che voglio raccontare.

[Matteo] Quindi quello che ci fa ridere in realtà… sei tu.

[Fabio] Non lo so, vediamo.