Incontro con Vittorio Giardino: tutte le verità di un maestro.

Incontro con Vittorio Giardino: tutte le verità di un maestro.

VittorioGiardinoIl vero primo incontro con Vittorio Giardino ha luogo nel corridoio della Facoltà di Lettere, l’immagine scorta da qualche metro di questo uomo, avvolto in un lungo cappotto e dal volto celato da un cappello a tesa larga mi colpisce; è inevitabile il richiamo alla silhouette di Max Fridman e alle numerose illustrazioni a lui dedicate. Vittorio Giardino è in anticipo e sembra essere il padrone di casa più che l’ospite di riguardo: nell’attesa che l’Aula si liberi saluta i presenti con cortesia e gentilezza, siano questi ammiratori, amici o collaboratori; li ringrazia della loro presenza, nonostante la neve che cade su Bologna. A lui il compito, e forse anche il piacere, di fare gli onori di casa, del resto siamo nella sua città. Spesso capita di sentir celebrare la grande umiltà di autori la cui importanza potrebbe autorizzare a cedere ad un pizzico di alterigia, un velo di compiacimento. La disponibilità, l’entusiasmo e la gentilezza con la quale Giardino conduce la sua “lezione”, come l’ha definita lui, non possono che confermare che non si tratta di una leggenda urbana. Con ironia Giardino racconta per più di due ore i propri esordi, la propria concezione del fumetto e le proprie manie. Confessa di aver preparato una serie di duecento documenti “Ma tranquilli, ve ne mostrerò soltanto quattro” per illustrare come la fase di ricerca storica sia per lui un elemento imprescindibile (e uno degli aspetti più divertenti) nella stesura di un lavoro. E si interrompe per salutare e di nuovo ringraziare Guido Silvestri, in arte Silver,  della sua presenza, dedicando a Lupo Alberto parte del suo intervento, così come si preoccupa di far arrivare delle sedie per alcune persone piuttosto alte, decisamente in difficoltà negli angusti seggiolini dell’aula. Da grande narratore Giardino offre ai presenti uno sguardo appassionato e divertito sul mestiere di fumettista e sulla sua personale interpretazione di questa professione, senza sottrarsi al confronto con il pubblico, anche quando le domande sfociano in un ambito più personale. Una lezione di fumetto che proponiamo di seguito, per tutti quelli che non hanno potuto essere presenti.

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Varrà : La prima domanda è di natura biografica,  il tuo è un esordio particolare in quanto a percorso biografico.Ti va di raccontarci il motivo della scelta di diventare un autore di fumetti e  se c’è stato un momento in cui hai pensato che fosse stato un errore o se hai sempre creduto che fosse stata la scelta giusta.

giardinoGiardino: Sono nato nell’inverno del 1946 e ho cominciato a disegnare a 4 anni. Poi ho fatto degli studi non artistici fino alla laurea in ingegneria e ho fatto l’ingegnere per 10 anni. Ho avuto in qualche modo  due vite, una da ingegnere e una da scrittore. Ho cominciato a fare fumetti a livello professionale nel 1978. Ho provato a fare il fumettista a tempo perso, ingegnere di giorno e autore di notte, ma poi ho capito che non era possibile. Ho dovuto decidere di  fare un salto nel buio per lasciare un mestiere sicuro e remunerativo per uno che non mi dava certezze, non sapevo bene quali fossero i rischi e sono stato fortunato perché alla fine è diventato il mio lavoro. Voglio essere chiaro che per me fare fumetti professionalmente non vuol dire essere bravi ma riuscire a mantenersi con questo lavoro, pagarci l’affitto e tutto il resto. Ci sono affermati professionisti che producono lavori di scarsa qualità così come opere bellissime  che non danno da vivere ai propri autori. Oggi vedo tutti i rischi che all’epoca non riuscivo a valutare e chiaramente non ho nessun rimpianto. È il sogno massimo di tutti fare per  lavoro qualcosa che si ama. Fellini diceva che se sapessero quanto ci si diverte a fare un film chiederebbero a noi di pagare invece che di pagarci per farli. La mia attività mi dà molta soddisfazione. Credo che solo una grave malattia potrebbe impedirmi di disegnare, per me fare fumetti è un piacere ma anche una gran fatica. Dovendo dare un consiglio come a volte mi è stato chiesto di fare, direi che questo è  un lavoro duro ma se lo si ama è solo un divertimento e se invece non lo si ama allora è meglio lavorare in banca. È  un lavoro senza orario e senza ferie, che costringe a tirate notturne (ora non più). Il mio record è di 72 ore consecutive sul tavolo da disegno, ricordo che dopo le prime 50 mi addormentavo sulla matita, svegliandomi per il dolore.

Varrà: Hai iniziato dicendo che hai cominciato  a disegnare a 4 anni e hai fatto riferimento al raccontare attraverso i disegni. Tu vedi il disegno al servizio del racconto? Il fuoco,  l’amore lo senti  per il disegno o per il racconto?

0Giardino: Per non rischiare di equivocare: cosa si intende per fumetto?  Per me è un racconto che si serve di parole e immagini, a differenza della letteratura che si serve solo di parole.  Anche il cinema lo fa, il fumetto però è destinato alla carta stampata, un mezzo freddo che offre un ascolto diverso da quello del cinema o della tv.  Se questo è vero nel fumetto non c’è gerarchia tra narrazione e parte estetica, sono simbiotiche,  hanno senso solo insieme e non separate. Provate a  leggere di un fumetto  solo le parole o guardare le sole figure senza leggere il testo. È come se si mettessero per scritto versi di una canzone, difficilmente avremo una poesia. I fumetti trasformati in romanzi di solito sono opere abbastanza tristi; mentre la sola immagine (illustrazione) tende a superare il contenuto narrativo, è di solito più bella del fumetto. Ma nel fumetto la simbiosi è totale. Per distinguere questo tipo di fumetto di cui vi parlo si può fare una prova semplice: provate a leggere un fumetto a qualcuno leggendo solo le parole, se capisce cosa succede quello non è un fumetto, è un libro illustrato con un testo autonomo ed immagini complementari. Per tornare quindi alla domanda iniziale  per me disegno e testo sono sullo stesso piano.  Quasi sempre anche quando faccio immagini singole e quindi uso un linguaggio diverso dal fumetto mi accorgo che nelle mie immagini è sempre compreso un racconto. Ricordo di aver realizzato una serigrafia per un editore belga, si vede una ragazza sotto un pergolato d’estate, seduta ad un tavolo mentre legge un libro. Ma facendo attenzione si può notare che sul tavolo ci sono due bicchieri, un libro chiuso e vicino al tavolo c’è  un’altra sedia. Nella mia idea questa immagine dovrebbe far pensare: “ma chi è quello che era seduto lì cinque minuti fa?”. In ogni mio disegno c’è una storia, degli interrogativi, una narrazione. Non sarò mai un pittore puro. Anche se, con buona pace degli insegnanti dell’Accademia, credo che molta pittura classica almeno fino a metà 800 fosse tendenzialmente narrativa, rappresentava momenti e storie,  di fatto raccontava. Penso ad esempio ai cicli di affreschi, veri e propri racconti  che i committenti chiedevano affinché parlassero anche agli analfabeti. Quindi la mia vocazione è paritaria,  anche se disegno da prima di saper scrivere.

Varrà: Un amore che hai dichiarato spesso è quello per Omero. Più volte si affaccia nel tuo lavoro e è nell’humus della tua opera. Ti chiedo se tu dovessi dire cosa di Omero hai assorbito nel tuo DNA di narratore, cosa diresti?

imagesGiardino: Quanti giorni abbiamo? Io ho sempre avuto un grande amore per Omero e in particolare per l’Odissea e sono convinto che è vero che dopo i due poemi omerici non è stato scritto più niente, solo variazioni sul tema. Invito tutti a rileggere l’Odissea senza guardare le note e dimenticando il libro che è, pensando che sia l’ultimo noir uscito nelle librerie. Avrete delle sorprese! È un libro in cui senza dubbio il protagonista è Odisseo, ma entra in scena solo ad un terzo del libro, fino ad allora  è raccontato dagli altri in un modo variabile, a seconda del punto di vista di chi parla. Poi un altro dettaglio: c’è un tale che sta in guerra dieci anni e per tornare a casa ce ne mette altri dieci. Quando finalmente ci riesce uno scrittore “normale avrebbe fatto una scena madre e invece Omero lo fa depositare dai Feaci su una spiaggia di Itaca mentre sta dormendo. Quando si sveglia non si accorge di essere tornato a casa. È una verità antiretorica da spaventarsi. Un altro raro esempio di creatività narrativa si ha quando Odisseo tornato a casa rivede finalmente la moglie e cosa fa? Non bacia la moglie,  parlano tutta la notte, le racconta tutto quello che ha passato, il primo impulso è quello di raccontare. Poi magari faranno anche l’amore ma quello semmai dopo! È giusto così ma nessuno lo racconta. Da sempre sostengo che Omero è un uomo, perché i personaggi femminili esauriscono tutto l’immaginario maschile sulla donna; dall’adolescente Nausicaa a Calipso che è l’altra donna, al gorgo sensuale che è Circe, compresa Atena che lo prende sempre in giro, donna ironica e intelligente. Credo e spero di aver imparato molto sulla necessità di raccontare onestamente, senza stratificazioni letterarie che sfocino in luoghi comuni. Non ci sono passi falsi nell’Odissea, il  Professor Bettini direbbe che la mia interpretazione è sbagliata perché non si può giudicare l’opera con la sensibilità moderna ma per farlo ci dovremmo rifare al paradigma dell’epoca. Io sono invece convito che ci sono dei motivi universali nei grandi capolavori. Amleto è un principe danese del Quattrocento ma è  anche mio fratello, mio cugino.

Varrà: La verità nel racconto del personaggio mi riporta anche al titolo di una biografia che hai scritto su un tuo personaggio Max Fridman “L’avventuriero prudente”…

Giardino: Si tratta di un libro fantasma, quasi un ossimoro nel titolo. È stato stampato in poche copie da un editore romano che poi non l’ha distribuito, quindi chi lo volesse trovare deve andare a Roma. L’idea del libro è nata dal fatto che capita spesso che i fumettisti inventino un personaggio che ha una sua identità precisa. Il romanzo del Novecento ci ha abituato che la letteratura è fatta di frammenti, dobbiamo andare alla fine del Settecento per trovare un romanzo che esaurisce completamente la biografia dei personaggi, per esempio Guerra e Pace. Molti scrittori però hanno nostalgia di raccontare qualcosa di più dei propri personaggi andando oltre ciò che è strettamente necessario. Io ho avuto voglia di raccontare cosa sapevo della vita precedente di Max Fridman e l’ho fatto con un romanzo perché sono molto lento a fare fumetti.  Il libro sembra raccontare la biografia di una persona reale e questo è molto post-novecentesco, rispondendo all’idea di fare partecipare il lettore alla dimensione totale che ho in mente quando racconto un personaggio. Conosco genitori e data di nascita di Fridman. Forse però avrei fatto meglio a non raccontarlo. Meglio non far sapere troppo del personaggio, ma in fondo sono solo 500 copie…
imageseeeSo anche la data della sua morte ma non la dirò mai, nemmeno sotto tortura.
L’esigenza di sapere molto del proprio personaggio è fondamentale per riuscire a farlo agire nel suo mondo, devono sembrare persone vive che si muovono con autonomia altrimenti sono solo maschere. Alle volte introduco dei personaggi secondari, che di fatto sono solo degli espedienti narrativi, poco più che marionette. Fermo a questo punto, non comincio nemmeno a disegnare. Poi diventano dei personaggi, assumono una loro vita propria e torno a riscriverne  le battute. Una cosa che distingue un personaggio da una maschera è la capacità di contraddirsi senza perdere la propria personalità. Ad esempio leggendo l’opera omnia di Carl Barks capita di trovare storie in cui Paperone non incarna la figura dell’avaro ma ha molte altre sfumature, come capita a Paperino che non è solo un vigliacco. Questi personaggi, che sono fisicamente delle caricature in realtà sono molto più complessi dei personaggi di alcuni romanzi. Silver è l’unico autore italiano che è riuscito ad inventarsi una strip all’americana, e non è una cosa semplice da fare. Forse fare le prime tre non è difficile ma arrivare a trecento senza ripetersi è un’altra cosa, è molto difficile manovrare una struttura narrativa come quella, molto più complessa della mia.

Varrà: Abbiamo della complessità del personaggio, la figura dell’eroe che proponi è sfaccettata. Ma c’è anche la complessità del contesto in cui i tuoi personaggi si muovono, e spesso è una dimensione storica che non li facilita: Fink che cresce negli anni ‘50 in una Praga comunista o Fridman nella Europa di Hitler.
Usi la storia come antagonista ai tuoi personaggi?

finkGiardino: Questa cosa nasce dal fatto che la nostra vita è influenzata dalle condizioni ambientali che sono determinate da quelle storiche.  Ciò che riusciamo a fare non è sempre ciò che vogliamo, ma quello che siamo messi in grado di fare. Non è mia intenzione suggerire un senso di ostilità verso le circostanze storiche ma mostrarne la capacità di condizionarci. Se fossi nato trenta anni prima, al posto di mio padre, avrei fatto la Seconda guerra mondiale, se fossi nato a Lubiana la mia vita sarebbe diversa, il qui e ora è determinante per tutti. Esistono momenti e luoghi particolarmente condizionanti. Se ho scelto di raccontare storie degli anni ’30 o ambientate negli anni ’50 a Praga non è un caso, come non è casuale che entrambi siano ebrei perché su di loro si riversarono le contraddizioni e le repressioni più feroci. Mi è sempre interessato raccontare con onestà le parti dei più deboli, delle vittime, cercando anche di mettere in luce le ragioni dei potenti. Mi piace capire quali erano le ragioni di certe persecuzioni che sembrano così crudeli e insieme stupide; per esempio per realizzare la soluzione finale i nazisti hanno impiegato mezzi e uomini nella parte finale della guerra, proprio quando ne avevano bisogno portare a termine lo sforzo bellico. Perché l’hanno fatto? Perché erano cattivi? Trovo questa risposta comoda per liquidare tutto in fretta. Molto semplice e comodo dire che Hitler era il male assoluto. Meglio cercare le ragioni di questi eventi, come per la rivolta di Franco contro la Repubblica spagnola. Nelle mie storie oltre al motivo del condizionamento della storia c’è anche il tentativo di mostrare quali erano le ragioni in lotta. Questo non con intento bipartisan, anzi. Se si vuole combattere occorre capire meglio, avere il ritratto del nemico in camera da letto sul comodino. Così possiamo ricordare ad esempio, che Hitler è stato democraticamente eletto nel 1933. Io tento un’operazione di ricostruzione storica: durante la guerra civile di Spagna il fronte repubblicano era spaccato e non coeso come si ama raccontare e questo fu uno dei motivi della sua sconfitta.

 Varrà: La quinta verità è il titolo della mostra a te dedicata, ti chiedo di parlare di come il controllare le cose influenza il tuo disegnare, quanto riesci a controllare quello che fai e quanto invece sfugge al tuo controllo?

2Giardino: Di solito ho l’illusione di controllare tutto ma non è così. Il progetto è importante ma c’è una parte che viene fuori in modo sotterraneo (anche se sono un ingegnere ho un inconscio!). Ci sono scelte e cose che sento che magari non ho progettato, a volte penso dopo al perché ho fatto certe scelte. Vi racconto un episodio: avevo progettato una storia di Friedman, mai uscita, ambientata a Gibuti e avevo pensato ad un locale un po’ equivoco frequentato da francesi. Mi ero chiesto: “Come si chiama il locale e da chi è tenuto? Una donna bionda dal passato compromesso. Il caffè come si chiama? Si chiama la Belle Aurore, perché lei si chiama Aurore!” Belle Aurore è il caffè dove si incontrano i protagonisti del film Casablanca. Ero convinto di averlo inventato io ma evidentemente da qualche parte lo ricordavo. C’è comunque una fase importante di progettazione razionale, anche perché nelle mie storie ci sono misteri da sciogliere, e  questo richiede una plausibilità narrativa; soprattutto necessaria nelle storie noir o di spionaggio, anche se credo che tutta la narrativa abbia bisogno di questa coerenza interna che va rispettata e richiede progettazione. Combatto da molto l’idea che l’artista compia il suo lavoro in preda ad una sorta di furore divino, un eccesso di impeto violentissimo e brevissimo. Io credo che non sia mai così, anche quando è così. Quando l’ispirazione e l’esecuzione sono momentanee, alle spalle c’è tutta l’esperienza di quell’autore: certi lavori di Picasso, fatti in trenta secondi, hanno comunque alle spalle quaranta anni di lavoro. Il cinema non racconta mai il tempo che gli autori spendono nella fatica di una realizzazione. Una parte progettuale è ineliminabile ma non basta, e quella non progettuale dipende da noi fino ad un certo punto; quando arriva bisogna saperla cogliere ed alimentarla, io la alimento con le ricerche storiche e documentali. Quando ho scoperto che Barcellona è stata la prima città bombardata a scopo terroristico, mi sono domandato in che modo garantissero l’oscuramento della città. Documentandomi ho saputo che c’era una sola centrale elettrica che riforniva tutta la città e che esistevano due grandi interruttori che ne interrompevano l’erogazione in caso di allarme.

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A questo punto l’incontro prosegue con le domande del pubblico:

Pubblico: Cosa ha sacrificato lei per il fumetto? Quanto tempo può permettersi di perdere?

Giardino: Beh, questa è una domanda un po’ indiscreta. Io sono un privilegiato, per il fatto di aver avuto la fortuna di essere stato pubblicato presto anche all’estero. Non riuscirei a vivere con le copie vendute nella sola Italia, ma la mole di volumi venduti nei vari paesi mi garantisce una vita agiata. La casa ai Caraibi è ancora lontana, ma questo mi consente di scegliere quali libri fare e come farli. È una condizione anomala nel settore. Io lavoro come un romanziere e quando ho finito vado da un editore e gli presento l’opera finita proponendone la pubblicazione. Molti miei colleghi, forse più scialacquoni, presentano prima il progetto ad un editore per avere finanziamenti, se l’editore dimostra interesse nei confronti dell’opera si firma un contratto e a quel punto si tratta di esaudire delle richieste e rispettare le scadenze, altrimenti ci sono delle penali. In quel caso puoi perdere poco tempo. L’altra ragione della mia posizione privilegiata è che i miei vecchi libri continuano ad essere venduti, continuando a darmi delle entrate. Questo argomento meriterebbe un capitolo a sé: nonostante abbia prodotto diversi libri, se andate in libreria ne troverete probabilmente due. Buona parte dei miei libri sono esauriti, ma l’editore non li ristampa. Trattandosi solo di poche migliaia di copie non trova convenienza nella loro riedizione, ed io questo non posso permettermelo.

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Pubblico: Partendo dalla sua formazione di ingegnere, in merito al rapporto scienza-arte, sa indicarci qualche lavoro in cui la derivazione scientifica si trova più facilmente?
Seconda domanda, visto che dice di sapere tutto dei suoi personaggi,  mi darebbe i numeri di telefono delle sue eroine?

Giardino: Per la seconda domanda la risposta è no. Per la prima domanda si potrebbe dire che già la fascinazione per gli intrecci complessi possa essere una derivazione. C’è una sorta di filo rosso che lega delle preferenze che sembrano istintive che hanno un sottofondo culturale: ad esempio io amo Piero della Francesca più di Botticelli e credo che abbia a che fare con la scienza. Tra Leonardo e Michelangelo scelgo inesorabilmente Leonardo. Nelle letteratura è ancora più difficile, ma un approccio scientifico lo aveva Primo Levi, il cui libro La chiave a stella ha saputo rendere l’ambiente di una fabbrica molto meglio di tanti romanzi narrati dal punto di vista degli operai.

Pubblico: Se fosse uno studente dell’accademia, con un mercato dominato dal fumetto orientale, continuerebbe a fare quello che ha fatto?

Giardino: Farei cose diverse perché sarei nato in un tempo diverso, poi io sono uno che ha fatto il classico e Omero forse l’ho amato per questo, magari se avessi fatto l’Accademia avrei amato qualcos’altro. Non è un caso forse che Milo (Manara) stia lavorando ad un libro dedicato a Caravaggio. Devo dire che mi iscrissi all’Accademia come privatista, facevo già l’ingegnere e ricordo che mi colpì molto il fatto che gli studenti dell’accademia non si rendessero conto della fortuna che avevano nell’essere lì, avendo a disposizione una enorme ricchezza in termini di strutture e  strumenti, un enorme capitale virtuale messo a loro disposizione. Erano contenti ogni volta che c’era una sospensione mentre io sarei stato contento di andarci anche di notte. Se oggi avrei fatto dei manga? Ma non lo escludo, forse anche alla mia epoca con altri studi avrei fatto cose diverse. Non voglio stabilire gerarchie tra i fumetti, né dire che i manga fanno schifo.

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Pubblico: Vorrei chiederle: in che cosa non le assomiglia Max Fridman?

Giardino: Per prima cosa non sono mai stato rosso di capelli, poi lui è francese, è ebreo e io no, anche se in passato anche io ho fumato la pipa. Inesorabilmente uno proietta un po’ di sé nei personaggi, anche perché chi disegna fumetti, siccome non si può permettere di avere un modello, quando si trova a disegnare nel proprio studio e non riesce ad immaginare le pose, finisce per mettersi davanti allo specchio.
C’è una fotografia in cui si vede un animatore della Disney che sta disegnando una fata dalla faccia sorpresa, la foto è ripresa da dietro e oltre al disegno si vede in uno specchio il disegnatore con la stessa espressione. Del resto riuscire a stabilire cosa è la somiglianza è molto complesso ed oscuro. Non è facile stabilire cosa ci fa identificare una persona, le caratteristiche geometriche di una persona non sono sufficienti. E la sua domanda ne ha un’altra che sta sotto e cioè perché lei mi vede somigliare a Friedman. Ma al di là delle teorie queste sono questioni estremamente pratiche per un disegnatore, visto che significa anche sapere disegnare personaggi riconoscibili. Ora ad esempio, nella lavorazione del terzo volume di Jonas Fink  sono alle prese con personaggi che sono cambiati, essendo cresciuti, ma che devono allo stesso tempo mantenere una somiglianza, un legame con le loro versioni precedenti.
Tornando a Fridman posso dire che la somiglianza spirituale è alta, come lo è molto anche quella politica, abbiamo la stessa visione del mondo. Se da una parte sono contento di non essere vissuto nel 1938, è vero che il personaggio di Fridman mi è servito per offrire una testimonianza di quei fatti.

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LA MOSTRA:

VITTORIO GIARDINO – LA QUINTA VERITÀ – 22 FEBBRAIO/1 APRILE – MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO DI BOLOGNA
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