Il percorso artistico di Alessandro Tota: da Yeti a Palacinche (Michele R. Serra)
Ogni narratore racconta se stesso? Mica sempre vero. Ma spesso.
Un paio d’anni fa leggevo Yeti, l’esordio in forma di libro per Alessandro Tota. Prima di quello aveva messo insieme poche storie, pubblicate principalmente nelle antologie degli amici bolognesi del gruppo Canicola. Yeti era un gran esordio, fatto di idee semplici messe sulla pagina con efficacia e pure sprazzi di vera poesia, che non è poco al giorno d’oggi.
Chiacchierando con Alessandro in occasione di quell’uscita ho scoperto di essere suo coetaneo, e che i trent’anni di vita sono l’unica cosa che abbiamo in comune: mentre io rimango attaccato unghie e denti alla mia città natale, lui ha smollato la sua (Bari) da un bel pezzo e ha scelto di vivere a Parigi – che non è Gessate, con tutto il rispetto. Dopo un breve periodo a bottega da Igort, oggi vive del suo lavoro, pubblicato oltralpe da Editions Sarbacane, Cornelius, Editions de l’Olivier. In Italia da Coconino, ovviamente.
Nel corso di quella stessa conversazione – via Skype, del resto dicono che siamo parte di una generazione di (quasi)nativi digitali – abbiamo parlato anche del modo in cui Alessandro aveva frullato elementi di autobiografia dentro la fiction di Yeti. Sosteneva di usare l’autobiografia “per superarla, come hanno fatto John Fante o Philip Roth – o Pazienza, che già aveva detto tutto. Se racconti la tua vita vera, il 90% del materiale risulta impubblicabile. Quello che puoi rendere pubblico è, al massimo, un mix di elementi della tua vita all’interno della fiction: come in un sogno, riesci a riconoscere gli elementi fondamentali, ma il modo in cui si relazionano fra loro è diverso“.
Questa affermazione può costituire un buon punto di partenza per ripercorrere la strada di Alessandro, breve viaggio in due anni e tre tappe dalla fiction al vero, dal racconto realista al reale, alla storia e alla vita. Dicevo, tre tappe: Yeti (2010), Fratelli (2011) e l’ultimo Palacinche. Storia di un’esule fiumana (2012).
Yeti era un pentolone di visioni – da Hayao Miyazaki a Tomi Ungerer – cucinate dentro una storia perfettamente rotonda, seppur mai carina come il suo protagonista rosa, lo yeti-Barbapapà senza pelo, metafora visiva della diversità. Tota raccontava la sua esperienza di cervello in fuga (perdonate la banalità) dall’Italia alla Francia, mascherando l’autobiografia con fiction venata di fantastico: una presa di distanza dalla sua storia personale che gli permetteva di allargare lo sguardo e di trasformare la narrazione in critica sociale, dal significato universale.
Fratelli, opera seconda composta da due lunghi racconti e qualche pagina sparsa, rappresentava rispetto a Yeti un primo scarto verso il reale: ambientato nella Bari degli anni Novanta (come dire, a casa) era caratterizzato dalla rimozione di ogni slancio fantastico e dei toni da fiaba dell’esordio. Un’opera, è stato detto, meno originale. O forse più semplicemente in linea con la contemporaneità: nella primavera del cosiddetto graphic novel è fiorito uno dei più imponenti movimenti di narrativa realista – più spesso, di autobiografia ombelicale – della storia, per motivi vari. C’è per prima la fame di realtà del pubblico che consuma factual e reality show in televisione, musica urbana che rivendica di non raccontare “frottole” (cit. Club Dogo, Don’t Test), documentari al cinema, letteratura non-fiction, video amatoriali sulla rete. C’è poi il mezzo, che aiuta: il fumetto permette al singolo autore il controllo pressoché totale del risultato narrativo, offre la possibilità di snudarsi completamente, eccetera.
Palacinche, arrivato nelle librerie da un mese scarso, è l’ultimo passo del percorso di Alessandro verso il reale: un’inchiesta storica itinerante, che parte dall’ambito familiare (mmm, dove l’abbiamo già sentita?) per raccontare la storia degli esuli giuliano-dalmati dopo la seconda guerra mondiale. La famiglia è quella di Caterina Sansone, compagna di viaggio e di vita di Alessandro: lui disegna, lei fotografa. Insieme compongono un diario della loro ricerca, che sembra diventare quasi più importante dell’oggetto stesso. Qui è tutto vero, zero fiction: cronaca del passato e del presente, relazioni personali e radici familiari. Un punto di arrivo segnato anche dal punto di vista formale: fumetto e fotografia – una combinazione già vista, pur con origine, finalità e risultati completamente diversi, nei racconti afgani di Emmanuel Guibert protagonista dell’edizione 2010 di Bilbolbul – mettono in pagina un dialogo antico intorno alla rappresentazione della realtà. Infatti se è il fumetto a caricarsi sulle spalle la responsabilità di narrare, sovrapponendo il racconto dei fatti e quello interiore, gli inserti fotografici assomigliano a pause di riflessione, con la duplice funzione di illuminare alcuni particolari e di ribadire che: è proprio tutto vero, perché non c’è solo il disegno mediatore, interprete e bugiardo professionista, ma anche la fotografia. E non importa se il dibattito su rappresentazione, oggettività eccetera è leggermente più ampio di così: l’effetto-realtà della fotografia vince, rendendo immediatamente più credibili anche le tavole a fumetti.
Insomma, Alessandro è arrivato a raccontare se stesso e la realtà, senza schermi né trucchi, chiudendo idealmente la prima parte del suo percorso artistico. C’è riuscito grazie a una storia d’amore (reale). Fossi in lui sarei soddisfatto.