Emmanuel Guibert, o l’etica della testimonianza

Emmanuel Guibert, o l’etica della testimonianza

Emmanuel Guibert, 45 anni e parigino di nascita, è un autore raro e necessario.

Qualche coordinata preliminare. Nella sua ormai articolata carriera Guibert ha realizzato fumetti fantastici e realistici, per bambini e per adulti. Ha disegnato una serie di grande fortuna per i piccini come Sardina dello Spazio e, sempre con Joann Sfar, ha illustrato Les Olives Noires (inedito in Italia) e La figlia del professore. Per un altro compagno di atelier, Marc Boutavant, ha sceneggiato le avventure scolastiche del piccolo asino Ariol. Insieme all’eccellente David B. ha invece realizzato Le capitaine écarlate. Infine è il creatore di alcuni graphic novel di impianto documentario: La guerra di Alan, e il più noto Il Fotografo, realizzato insieme al reporter Didier Lefèvre e con la collaborazione di Frederic Lemercier. Alla fine del 2009 Guibert è stato insignito del Premio alla carriera dall’ottimo Festival “BD Boum” di Blois, che ha voluto riconoscerne la splendida traiettoria artistica, “fatta di libri atipici, sinceri e pieni di umanità“, come ha sintetizzato il magazine BoDoi.

Fin qui, la bibliografia essenziale. Invece di illustrarvi in dettaglio il suo intero percorso bicefalo, tra pulsione al fantastico e realismo, vorrei però passare direttamente al cuore del suo lavoro. E in estrema sintesi, potrei dire così: a differenza di tanti ottimi autori, Guibert non è solo un artista dotato di alcuni specifici tratti stilistici, una certa identità narrativa e un immaginario personale che ne fanno un autore efficace, brillante ed elegante. La preziosità della poetica di Guibert va riconosciuta perché, almeno ai miei occhi, possiede qualcosa di ancora più importante: una visione del mondo e dell’uomo.

Il nodo centrale, nell’opera di Guibert, è nel praticare un’idea preziosa del lavoro dell’artista e del narratore: testimoniare l’identità umana dell’uomo. Un’idea rara in genere, che nel fumetto suona particolarmente originale. Anche perché non si tratta di un elemento fra gli altri, ma il motore stesso del progetto artistico di Guibert. I suoi due lavori più importanti e personali, La guerra di Alan e Il Fotografo, sono tra i più splendidi esempi di “fumetto di testimonianza” mai visti, accanto forse al solo Maus di Art Spiegelman. Le fondamenta di questo approccio sono poggiate, in modo esplicito e radicale, su un atteggiamento di empatia fra l’artista e gli uomini di cui Guibert decide di raccontare le vicende. In questi lavori, infatti, l’autore non solo racconta storie, ma lo fa partendo dall’assunto che raccontare è portare alla luce uno sguardo sul mondo propriamente e profondamente umano. E questo avviene attraverso un modo di procedere che, a sua volta, è anch’esso profondamente umano, perché si alimenta della relazione di condivisione tra amici (Didier per Il fotografo, Alan per La guerra di Alan), e della fiducia accordata dall’autore al loro specifico sguardo sul mondo.

Il Fotografo racconta una spedizione di Medici Senza Frontiere durante l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS iniziata nel 1979. Il fotogiornalista Didier Lefèvre si unisce a questa missione nel 1986, per documentare gli sforzi di un gruppo di medici impegnati a portare assistenza medica alla popolazione afghana. Dalle rischiosi traversate delle montagne al confine Pakistano schivando le bombe, ai problemi di comunicazione, fino alla difficile integrazione sociale, questa esperienza arriverà quasi a costare la vita a Lefèvre.

La guerra di Alan narra invece la vita del soldato Alan Cope, reduce della Seconda Guerra Mondiale trasferitosi in Francia dopo il conflitto. L’opera segue la vita di questo giovane militare, il suo addestramento e l’esperienza di una guerra in cui non sparerà un solo colpo. Ne percorre non le grandi conquiste, ma i piccoli episodi di banalità, ingenuità, incompetenza, tra momenti quasi comici e istanti di acuto orrore. La guerra vissuta da Alan diventa così la storia delle persone, delle amicizie passeggere o lunghe una vita, dei piccoli grandi incontri che popolano l’esistenza e i ricordi di un eroe qualunque, cui il tempo ha regalato uno sguardo benevolo sul proprio passato.

Nel Fotografo e nella Guerra di Alan l’autore è quasi del tutto assente. Guibert tende a sparire, non racconta in prima persona, cede il posto alla soggettività altrui. Quella di Didier Lefèvre o Alan Cope, persone reali le cui esperienze, vissuti e percezioni Guibert cerca di ricostruire e indagare, senza integrarle o arricchirle con valutazioni ‘esterne’. Nel caso di Lefèvre, l’arretramento di Guibert è persino nel linguaggio artistico: le sue tavole lasciano spesso spazio alle fotografie del reporter. Il lettore è posto di fronte a vicende riferite non solo da una voce narrante – il mero strumento tecnico della ‘soggettiva’ – da uno sguardo ‘incarnato’ cui Guibert sottomette il proprio progetto narrativo, aderendovi senza tentennamenti. Una scelta compiuta a monte, e naturalmente fortemente voluta. Dal punto di vista del metodo, Guibert ha infatti raccolto e registrato nel corso di anni le memorie orali di Lefèvre e di Cope. Ha quindi trascritto le interviste e, come un vero etnografo, ha considerato il ‘racconto di vita’ dei suoi amici il solo orizzonte legittimo entro cui procedere. Un dato sul quale l’intervento del narratore deve limitarsi a offrire una sintesi che sia una rappresentazione rispettosa, ancorata alla soggettività delle percezioni dell’amico intervistato. Guibert china la testa, si allontana dalla scena, e da dietro le quinte sollecita gli attori a “dirsi”, ponendo le domande giuste per permettere di testimoniare le loro piccole, ma esemplari esperienze. Ha detto Guibert: “sono stato lo sceneggiatore e il disegnatore di una storia vissuta, sotto il controllo permanente di chi l’aveva vissuta.”

In entrambi questi lavori la cornice è sempre la guerra, ma il vero tema è un altro: la memoria, l’esperienza e, soprattutto, la qualità dell’esistenza di chi ha saputo vivere una vita per illuminare gli altri – un amico o una comunità – con la forza del proprio esserci. Queste storie ci dicono infatti non solo “è così che è andata”, ma anche “è così che era giusto fare”. L’esperienza di Alan Cope e di Didier Lefèvre diventano occasioni per dirci della dignità dell’esistenza, e di come la differenza la facciano i modi in cui, pur nella più drammatica delle condizioni come la guerra, l’umanità sia la più potente risorsa per mantenere la rotta della vita. Una qualità esistenziale che sconfina, nel caso de Il Fotografo, con l’impegno civile, perfettamente rappresentato dal desiderio di assistere gli altri come modo per affermare la superiore dignità di un destino sociale vissuto autenticamente. Ma anche una qualità che, nel caso de La guerra di Alan, ci dice più in generale del valore della vita, nascosto nei dettagli delle relazioni vere, la cui intensità genera un sentimento di pienezza vitale, un entusiasmo per l’esistenza che è la vera anima dell’atteggiamento umanista di Guibert: “penso che gran parte di quello che faccio sia condizionato dall’entusiasmo che mi ha trasmesso la mia infanzia, questa idea che la vita è qualcosa che va celebrata”.

Leggero e profondo, semplice e luminoso, lo sguardo di Guibert è a sua volta una testimonianza della dimensione etica del fumetto e dell’arte come la forma più alta dell’esperienza. “L’essenziale è che delle persone possano dire qualcosa dell’esperienza umana, e che questo rimanga. Alan non ha avuto la mia vita, eravamo differenti, ma avevamo abbastanza cose in comune per comprenderci e apprezzarci, e ha detto delle cose che mi hanno sufficientemente segnato perché io ne fossi, almeno, un testimone”.

Emmanuel Guibert, o l’etica della testimonianza.

di Matteo Stefanelli

Emmanuel Guibert, 45 anni e parigino di nascita, è un autore raro e necessario.

Qualche coordinata preliminare. Nella sua ormai articolata carriera Guibert ha realizzato fumetti fantastici e realistici, per bambini e per adulti. Ha disegnato una serie di grande fortuna per i piccini come Sardina dello Spazio e, sempre con Joann Sfar, ha illustrato Les Olives Noires (inedito in Italia) e La figlia del professore. Per un altro compagno di atelier, Marc Boutavant, ha sceneggiato le avventure scolastiche del piccolo asino Ariol. Insieme all’eccellente David B. ha invece realizzato Le capitaine écarlate. Infine è il creatore di alcuni graphic novel di impianto documentario: La guerra di Alan, e il più noto Il Fotografo, realizzato insieme al reporter Didier Lefèvre e con la collaborazione di Frederic Lemercier. Alla fine del 2009 Guibert è stato insignito del Premio alla carriera dall’ottimo Festival “BD Boum” di Blois, che ha voluto riconoscerne la splendida traiettoria artistica, “fatta di libri atipici, sinceri e pieni di umanità”, come ha sintetizzato il magazine BoDoi.

Fin qui, la bibliografia essenziale. Invece di illustrarvi in dettaglio il suo intero percorso bicefalo, tra pulsione al fantastico e realismo, vorrei però passare direttamente al cuore del suo lavoro. E in estrema sintesi, potrei dire così: a differenza di tanti ottimi autori, Guibert non è solo un artista dotato di alcuni specifici tratti stilistici, una certa identità narrativa e un immaginario personale che ne fanno un autore efficace, brillante ed elegante. La preziosità della poetica di Guibert va riconosciuta perché, almeno ai miei occhi, possiede qualcosa di ancora più importante: una visione del mondo e dell’uomo.

Il nodo centrale, nell’opera di Guibert, è nel praticare un’idea preziosa del lavoro dell’artista e del narratore: testimoniare l’identità umana dell’uomo. Un’idea rara in genere, che nel fumetto suona particolarmente originale. Anche perché non si tratta di un elemento fra gli altri, ma il motore stesso del progetto artistico di Guibert. I suoi due lavori più importanti e personali, La guerra di Alan e Il Fotografo, sono tra i più splendidi esempi di “fumetto di testimonianza” mai visti, accanto forse al solo Maus di Art Spiegelman. Le fondamenta di questo approccio sono poggiate, in modo esplicito e radicale, su un atteggiamento di empatia fra l’artista e gli uomini di cui Guibert decide di raccontare le vicende. In questi lavori, infatti, l’autore non solo racconta storie, ma lo fa partendo dall’assunto che raccontare è portare alla luce uno sguardo sul mondo propriamente e profondamente umano. E questo avviene attraverso un modo di procedere che, a sua volta, è anch’esso profondamente umano, perché si alimenta della relazione di condivisione tra amici (Didier per Il fotografo, Alan per La guerra di Alan), e della fiducia accordata dall’autore al loro specifico sguardo sul mondo.

Il Fotografo racconta una spedizione di Medici Senza Frontiere durante l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS iniziata nel 1979. Il fotogiornalista Didier Lefèvre si unisce a questa missione nel 1986, per documentare gli sforzi di un gruppo di medici impegnati a portare assistenza medica alla popolazione afghana. Dalle rischiosi traversate delle montagne al confine Pakistano schivando le bombe, ai problemi di comunicazione, fino alla difficile integrazione sociale, questa esperienza arriverà quasi a costare la vita a Lefèvre.

La guerra di Alan narra invece la vita del soldato Alan Cope, reduce della Seconda Guerra Mondiale trasferitosi in Francia dopo il conflitto. L’opera segue la vita di questo giovane militare, il suo addestramento e l’esperienza di una guerra in cui non sparerà un solo colpo. Ne percorre non le grandi conquiste, ma i piccoli episodi di banalità, ingenuità, incompetenza, tra momenti quasi comici e istanti di acuto orrore. La guerra vissuta da Alan diventa così la storia delle persone, delle amicizie passeggere o lunghe una vita, dei piccoli grandi incontri che popolano l’esistenza e i ricordi di un eroe qualunque, cui il tempo ha regalato uno sguardo benevolo sul proprio passato.

Nel Fotografo e nella Guerra di Alan l’autore è quasi del tutto assente. Guibert tende a sparire, non racconta in prima persona, cede il posto alla soggettività altrui. Quella di Didier Lefèvre o Alan Cope, persone reali le cui esperienze, vissuti e percezioni Guibert cerca di ricostruire e indagare, senza integrarle o arricchirle con valutazioni ‘esterne’. Nel caso di Lefèvre, l’arretramento di Guibert è persino nel linguaggio artistico: le sue tavole lasciano spesso spazio alle fotografie del reporter. Il lettore è posto di fronte a vicende riferite non solo da una voce narrante – il mero strumento tecnico della ‘soggettiva’ – da uno sguardo ‘incarnato’ cui Guibert sottomette il proprio progetto narrativo, aderendovi senza tentennamenti. Una scelta compiuta a monte, e naturalmente fortemente voluta. Dal punto di vista del metodo, Guibert ha infatti raccolto e registrato nel corso di anni le memorie orali di Lefèvre e di Cope. Ha quindi trascritto le interviste e, come un vero etnografo, ha considerato il ‘racconto di vita’ dei suoi amici il solo orizzonte legittimo entro cui procedere. Un dato sul quale l’intervento del narratore deve limitarsi a offrire una sintesi che sia una rappresentazione rispettosa, ancorata alla soggettività delle percezioni dell’amico intervistato. Guibert china la testa, si allontana dalla scena, e da dietro le quinte sollecita gli attori a “dirsi”, ponendo le domande giuste per permettere di testimoniare le loro piccole, ma esemplari esperienze. Ha detto Guibert: “sono stato lo sceneggiatore e il disegnatore di una storia vissuta, sotto il controllo permanente di chi l’aveva vissuta.”

In entrambi questi lavori la cornice è sempre la guerra, ma il vero tema è un altro: la memoria, l’esperienza e, soprattutto, la qualità dell’esistenza di chi ha saputo vivere una vita per illuminare gli altri – un amico o una comunità – con la forza del proprio esserci. Queste storie ci dicono infatti non solo “è così che è andata”, ma anche “è così che era giusto fare”. L’esperienza di Alan Cope e di Didier Lefèvre diventano occasioni per dirci della dignità dell’esistenza, e di come la differenza la facciano i modi in cui, pur nella più drammatica delle condizioni come la guerra, l’umanità sia la più potente risorsa per mantenere la rotta della vita. Una qualità esistenziale che sconfina, nel caso de Il Fotografo, con l’impegno civile, perfettamente rappresentato dal desiderio di assistere gli altri come modo per affermare la superiore dignità di un destino sociale vissuto autenticamente. Ma anche una qualità che, nel caso de La guerra di Alan, ci dice più in generale del valore della vita, nascosto nei dettagli delle relazioni vere, la cui intensità genera un sentimento di pienezza vitale, un entusiasmo per l’esistenza che è la vera anima dell’atteggiamento umanista di Guibert: “penso che gran parte di quello che faccio sia condizionato dall’entusiasmo che mi ha trasmesso la mia infanzia, questa idea che la vita è qualcosa che va celebrata”.

Leggero e profondo, semplice e luminoso, lo sguardo di Guibert è a sua volta una testimonianza della dimensione etica del fumetto e dell’arte come la forma più alta dell’esperienza. “L’essenziale è che delle persone possano dire qualcosa dell’esperienza umana, e che questo rimanga. Alan non ha avuto la mia vita, eravamo differenti, ma avevamo abbastanza cose in comune per comprenderci e apprezzarci, e ha detto delle cose che mi hanno sufficientemente segnato perché io ne fossi, almeno, un testimone”.

1 Comment

  1. Emmanuel Guibert, o l’etica della testimonianza. « Fumettologicamente · 2 marzo 2010

    […] Emmanuel Guibert, o l’etica della testimonianza. Pubblicato su 02/03/2010 da matteos Emmanuel Guibert, parigino di 45 anni, è un autore raro e necessario. Sarà ospite al Festival BilBOlbul, per una serie di mostre e incontri (tra cui uno insieme al fotografo Massimo Sciacca e al sottoscritto). Questo è un breve intervento che ho preparato per il magazine/blog del festival, pubblicato ieri qui. […]

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: