Segni di pittura: intervista a Marina Girardi
Kurden People, il tuo primo fumetto ad essere pubblicato, ha vinto nel 2008 il premio Komikazen. Ci spieghi da dove è nata l’idea per questa storia?
Come racconto nella prima parte del libro, nel 2002 ero di ritorno da un viaggio a Creta. Sola col mio zaino, ho incontrato, sul treno che mi portava a Patrasso, un ragazzo dagli occhi nerissimi, gli stessi occhi neri che poi ho ritrovato intorno a me quando, dopo essermi addormentata al porto, in attesa della nave che mi avrebbe riportato a casa, mi sono svegliata circondata da un gruppo di uomini baffuti. Mi dissero di essere kurdi iracheni e di aspettare il momento propizio per saltare su una nave e venire in Italia. All’epoca fissai l’episodio nel mio diario di viaggio e l’intensità del seppur breve incontro fece sì che quegli appunti divenissero spunto per un racconto.
La vittoria del premio Komikazen mi ha permesso di ampliare il nucleo iniziale della storia. Da un lato mi sono resa conto che c’erano stati altri episodi in cui la mia vita si era incrociata con le vicende del popolo kurdo: a Venezia, dove ho studiato alcuni anni alla facoltà di Lingue Orientali e dove i kurdi sbarcano dalle navi che provengono dalla Grecia, e sui banchi di scuola delle medie, quando non seguivo l’ora di religione e la mia insegnante di lettere mi raccontava “le storie più truci dell’umanità”. Dall’altro lato ho deciso di andare a vedere che aria si respirasse realmente in Kurdistan, e così sono partita per il sud-est della Turchia con un gruppo di amici giocolieri. Facendo spettacolo nei villaggi abbiamo conosciuto vecchi e bambini, e grazie a un’amica italiana che lavorava in una città nei pressi di Diyarbakir, abbiamo potuto fare delle belle chiacchierate con alcuni ragazzi impegnati in un circolo culturale.
Da tutte queste esperienze, dallo studio delle vicende kurde e dalla lettura dei romanzi di Yashar Kemal, il grande scrittore di origini kurde che mescola alle sue memorie d’infanzia, le gesta leggendarie dei popoli dell’Anatolia, nasce Kurden people.
In Kurden People hai prediletto delle tavole senza le classiche vignette, strutturate in maniera sempre differente, mischiando i diversi piani di lettura e diversi soggetti narrativi. Perché questa scelta piuttosto che preferire un approccio più canonico alla tavola e c’è qualche motivazione di fondo dietro ad un segno così abbozzato, istintivo, veloce e in un certo senso disadorno?
Parallelamente alla passione per il fumetto, coltivo da sempre quella per l’illustrazione ed entrambe le ricerche sono state influenzate dall’amore per la pittura, soprattutto quella di segno astratto, informale, gestuale ed espressionista. Dunque dalla mia formazione di illustratrice deriva il fatto di pensare alla doppia pagina del fumetto come ad un’intera tavola, con una sua composizione unitaria, mentre il tratto “disadorno” viene dalla dedizione per il segno pittorico sporco e materico. Mi affascina il fatto di riuscire a veicolare, con pochi tratti, tutta la potenza di un messaggio, e tale potenza è maggiore se non è del tutto definita, se viene lasciato cioè lo spazio all’ambiguità, all’interpretazione del fruitore.
Questo procedimento, dall’ambito grafico, si riflette anche nel modo in cui strutturo la narrazione. Il mio interesse non è unicamente quello di raccontare la storia del popolo kurdo, ma è soprattutto quello di farlo attraverso gli occhi di una ragazza che viaggia, si incuriosisce e ricostruisce le vicende kurde attraverso gli stimoli che incontra. Mentre viaggia Sonia legge un libro, fotografa un cane randagio, disegna la cupola di un campanile, passa attraverso luoghi imbevuti di storia, mito, leggenda, vicende umane. Questo è ciò che cerco di trasmettere attraverso una struttura narrativa non lineare, come se fossi una pittrice e invece dei colori usassi gli elementi della realtà complessa in cui vivo.
Non hai pensato che forse fosse più comodo un approccio più canonico, senza grossi rischi da prendere? Non hai pensato che magari si rischiava di strafare, soprattutto considerando che questo poteva essere il tuo primo fumetto pubblicato?
La paura di strafare l’ho avuta piuttosto riguardo all’argomento che stavo affrontando, la storia di un popolo che solo a nominarlo si rischia di cadere nello stereotipo politico. Ma è proprio cercando di riportare -sul piano grafico e su quello narrativo- la complessità di questa storia che sono forse riuscita a evitare trappola della demagogia.
In ultima mi rendo conto che quello che voglio trasmettere è -una cosa molto zen!- proprio l’accettazione della complessità delle cose.
Anche l’incontro con il diverso, in questo caso il popolo kurdo, penso abbia senso nel momento in cui ci si lascia contaminare senza porre paletti. Quando ci si affida alle definizioni, la ricchezza della realtà viene sminuita e così penso accada anche nel raccontare e nel disegnare. In questo caso penso che sia la forma stessa del racconto a voler comunicare un modo di vedere le cose. Certo forse ciò richiede al lettore uno sforzo particolare di attenzione. E all’autrice sicuramente un continuo lavoro di affinamento della tecnica narrativa!
“Festival del fumetto di realtà” è il sottotitolo di Komikazen. E’ solo per il suo indirizzo che ti sei cimentata con questo tipo di tematiche narrative oppure in qualche modo eri già legata a questo modo di intendere il fumetto? E ricollegandomi alla domanda precedente, cos’è per te il fumetto, quali potenzialità ha e cosa comporta narrare per immagini, vignette e balloons?
Come ti spiegavo, è nata prima la volontà di fare una storia sull’incontro a Patrasso e poi è arrivato il concorso. Da sempre infatti mi interessa vedere come in un piccolo pezzetto di realtà, in questo caso l’incrocio di uno sguardo su un treno tra un ragazzo iracheno e una ragazza italiana, sia racchiusa una storia così articolata da coinvolgere per esempio lo spostamento di interi popoli.
Mi piace cercare le geometrie segrete della realtà, quelle che permettono di fare un collegamento tra un kebab e la battaglia di Lepanto, una pecora greca e un barbone ungherese, l’Odissea e la fuga dei kurdi dalla polizia.
Penso che il fumetto sia il mezzo che più di tutti mi permetta di veicolare questo genere di visione delle cose. Giocando con gli elementi della composizione grafica, del disegno e della scrittura posso fare questi arditi salti tra diverse dimensioni, posso far coesistere realtà, favola, mito e storia. Il fumetto, con le sue infinite possibilità di combinazioni spazio-temporali è per me il mezzo ideale per riprodurre la vitalità del caos in cui siamo immersi.
Sappiamo che hai frequentato, oltre la Scuola Internazionale di Comics di Firenze anche il corso di Fumetto e Illustrazione all`Accademia di Belle Arti di Bologna e dei laboratori a cura di Mirada Ravenna. Quanto si può veramente imparare a fare fumetti andando a scuola e quanto invece si deve investire del proprio bagaglio di esperienze, della propria formazione personale e culturale?
Penso che, come in tutte le arti, le cose debbano andare di pari passo. Tutto parte dai propri interessi e dal loro approfondimento, e l’esperienza di vita che uno fa è il materiale da cui attingere se si vuol realizzare opere che parlino veramente a chi le fruisce. Senza però la guida e lo stimolo di chi ha più esperienza, si rischia di perdersi, d’impigrirsi, di sprecare energie, di non cogliere le reali potenzialità insite nel proprio lavoro. D’ altra parte l’insegnamento perde il suo scopo di promotore della crescita artistica nel momento in cui viene accettato supinamente, senza senso critico. E qui si ritorna alla coltivazione della propria visione delle cose attraverso l’esperienza personale. Il laboratorio scolastico può bastare a farti diventare un disegnatore, ma l’autore diventa grande quando supporta la capacità tecnica con la consapevolezza.
La solita domanda di rito: stai lavorando su qualcosa di nuovo?
In occasione del festival di BilBOlbul uscirà un quaderno di disegni che ho realizzato per la collana Hidden di Comma22, curata da Giuseppe Palumbo. Si tratta di una sorta di diario di bordo a matita del luogo in cui vivo, una vecchia casa sull’Appennino sopra Bologna. La casa è praticamente in mezzo al bosco e con le persone che abitano i diversi appartamenti in cui è divisa, oltre a organizzare feste e cene, si coltiva l’orto e la vigna, si divide la legna per l’inverno e ci si butta giù dai calanchi con la slitta. Ritratti delle persone dunque, ma anche degli animali che trotterellano nei boschi, degli insetti che ronzano nei prati e via discorrendo. E naturalmente… anche qui i posti hanno la loro storia: a saperli leggere i segni della Seconda Guerra Mondiale sono cicatrici che pulsano ancora. Poco più in là passava la Linea Gotica e da questa cosa nasce anche lo spunto per un altro libro che sto preparando, sempre per Comma22. Anche in questo caso si tratterà di incroci tra presente e passato. Le valli battute dalla ritirata nazista ora hanno nuove cicatrici fresche fresche che si chiamano “cantieri della TAV” o “Variante di Valico”, ma anche nuove incredibili forme di vita, una squadra di rugby per esempio…