Diario di un vizio

Diario di un vizio


Estratto dell’intervista a Paolo Bacilieri realizzata da Edo Chieregato e pubblicata sul numero 117 de “Lo Straniero” (marzo 2010).

Paolo, ti ho sempre visto come un autore nomade, un po’ come il tuo personaggio Zeno Porno che ha vagato da una rivista all’altra. Dagli anni Ottanta, da cui hai pescato molto della tradizione del nuovo fumetto (la veemenza di Frigidaire / la sofisticazione del gruppo Valvoline) in cui hai iniziato,  ad oggi, il tuo mi sembra un percorso in solitaria. Non sei mai appartenuto a un gruppo o scuola specifica, non ti sei mai identificato con un editore in particolare, non hai mai fatto distinzioni tra popolare e autoriale… in te convivono tanti influssi stilistici, ma nello stesso tempo hai un’identità tra le più forti in Italia. Credi che esista questa estraneità? Come è stata la tua esperienza?

E’ vero e ho sempre invidiato quegli artisti (non solo fumettisti) per i quali la formazione è passata attraverso un gruppo, avanguardia, band musicale etc. Gruppo 63, Nouvelle Vague, Kinks… qualcosa da fare insieme, in gruppo. Cannibale e Frigidaire, L’Association, (per non parlare di voi di Canicola!). A me è andata così, non saprei se per ragione caratteriali, geografiche o di semplice sfiga. Amen. Però non avrei voluto nascere dieci anni prima o dieci dopo. Ho fatto in  tempo a conoscere Hugo Pratt ed ero così giovane (17 anni) da rimanerne segnato per sempre, sto lavorando alla cosa che mi piace di più: fare fumetti, in un momento eccezionale in cui in tutto il mondo artisti bravissimi stanno facendo cose nuove, belle. Ho, come si suol dire, ancora un sacco da imparare, ma non mi sento così solo, anni di collaborazioni fallimentari con vari editori mi hanno permesso di conoscere tanti colleghi/eghe, con alcuni ci si vede, si discute di fumetti e non… e per fortuna non frequento solo fumettisti. Spero di poter allargare il mio campo d’azione ma il dna è e rimane quello, italiano, a cavallo (o incastrato?) tra due secoli.

Sei cresciuto a fumetti ma anche oggi che hai una poetica definita non ti sei chiuso nella tua ricerca di autore. E’ evidente il continuo dialogo con il medium e l’attenzione agli sviluppi internazionali come la tua interpretazione di certi stilemi compositivi di Chris Ware ad esempio. Nei tuoi fumetti ci sono riferimenti a maestri imprescindibili (Robert Crumb e Chester Gould) ma credo che l’imprinting maggiore derivi dal Bacilieri giovane lettore e quindi Hugo Pratt, Magnus, Gianni De Luca, Sergio Toppi, Buzzelli, Crepax, Albertarelli, Jacovitti… autori immensi per innovazione e tradizione italica. Cosa significa crescere come autore e misurarsi con quei maestri? Cioè come li vedevi da bambino e come li guardi oggi…

Da bambino sei una spugna con una capacità di assorbire straordinaria e quindi dietro ai Grandi Maestri da te citati ci sono una miriade di fumetti, anche brutti, anche minori, che hanno contribuito a creare sensibilità gusto, idiosincrasie. Per quanto riguarda i “Grandi Maestri” ancora adesso li rileggo molto volentieri ma senza sacralità. Anzi spesso diventano “utensili” narrativi e compositivi tuttora molto efficaci, quando devo costruire una storia.

La cultura italiana nei tuoi racconti non emerge solo dalla tradizione fumettistica ma al contrario da un emersione continua di riferimenti letterari (Pasolini, Pirandello, Levi), artistici (Piranesi, Rotella, Bellini, Boccioni, Fontana), musicali (Patty Pravo, Tenco) dell’architettura (Giò Ponti), design (Ettore Sottsass), fotografia (Basilico) che confermano la stratificazione del nostro immaginario che fai fluire nelle pagine con un approccio leggero e non certo accademico. Questi riferimenti connotano fortemente i personaggi, gli ambienti, e le storie stesse come accadeva alla Milano borghese disegnata da Crepax. Mi spieghi che significato hanno per te? Come li inserisci? Sei un rubinetto aperto o c’è controllo?

Sono un rubinetto che perde! Questi inserimenti seguono forse più l’istinto o se vuoi una ragione “pittorica” o se vuoi musicale, più che un rigoroso controllo narrativo e tematico. Un megaballoon brulicante di parole ha per me anche un valore visivo, come lo può avere un blu di prussia in un quadro… Mi piace che l’ambiente visivo in cui i miei personaggi si muovono, sia ricco, variegato, profondo, e inevitabilmente pesco da ciò che ho letto, visto, vissuto.

La tua ricerca del linguaggio è molteplice. C’è la decostruzione della griglia tradizionale che hai introdotto pian piano nei tuoi lavori. C’è l’attenzione grafica per il lettering, che disegni a mano, e interpreti di volta in volta. C’è l’“orientamento drammaturgico” del balloon che dirige lo sguardo e la lettura. Nella tua grammatica personale quanto concedi alla forma, all’attenzione per il disegno e la sua impostazione grafica, e quanto invece ti affidi alla storia a quello che vuoi raccontare?

Le due cose vanno esattamente di pari passo. Il tutto nasce da un nucleo di storia, spesso molto elementare e tutt’altro che lineare. Da lì discende un lavoro di taglia e incolla, di uncinetto, in cui non c’è un ordine a priori che sovrintende, ma problemi che cerco di risolvere di volta in volta nel migliore dei modi, in maniera più istintiva che programmatica.

Lo spazio, gli ambienti, il paesaggio, le architetture sono tutti elementi che determinano e connotano una buona storia. Tu usi con sapienza tutto questo e in particolare hai raccontato la provincia del nordest veneto in cui sei cresciuto, Venezia e Milano dove vivi. Puoi raccontare cosa ti interessa di tutto questo? E come credi di interpretare le diverse desolazioni che sembri mettere in campo ogni volta?

Per prima cosa, tra le città aggiungerei anche Ginevra, che ho visitato più di una volta per poter disegnare al meglio gli albi di Napoleone. Ho sempre, almeno da Barokko in poi, lavorato con attenzione sugli ambienti, andando a vederli e a disegnarli/fotografarli di persona, quando possibile. Gli ambienti sono altrettanto importanti dei personaggi che vi si muovono dentro. Anzi, gli ambienti sono personaggi. Non so se la chiave è sempre quella della desolazione, non credo.

The SuperMaso attitude (1996) narra in sole sedici pagine la tragedia del veronese Pietro Maso che inaugurò la stagione dei parenticidi per vuoto esistenziale. È  un racconto splendido che ha anticipato di un decennio l’attenzione del fumetto italiano per il racconto di cronaca, ma soprattutto diede prova del forte potenziale interpretativo e di sintesi del linguaggio. Con grande forza hai miscelato documentazione ed elementi stranianti del racconto, cupo realismo, atmosfera inquietante, montaggio, valore simbolico degli oggetti, attraverso un’ironia orrorifica per descrivere il male regnante in una provincia del niente e del tutto desiderato. La storia è un pugno nello stomaco, è complessa e stratificata, ma colpisce e denuncia in maniera diretta. Cosa ne pensi del fumetto di cronaca tanto in voga oggi? Tu come intendi il racconto del reale?

Il reale si racconta da solo, il rischio è sempre quello di “sovrastrutturare”, o anteporre il proprio stile alla storia. Se Supermaso uscisse oggi, non susciterebbe tutto lo scalpore che fece allora. In questi anni i fumetti hanno guadagnato molto terreno, anche in Italia, uscendo da clichè di puro intrattenimento, erotismo, evasione, il che è sicuramente un bene dal mio punto di vista.

Si parla spesso del tuo doppio impegno come disegnatore – da una parte il percorso personale di Durasagra, Barokko, Zeno porno e La magnifica desolazione e dall’altra la collaborazione con Sergio Bonelli per le serie di “Napoleone” e “Jan Dix” – ragionando in termini di “libertà creativa” o “autorialità”. Semmai mi è sembrato che col tempo i due percorsi, paradossalmente, abbiano rafforzato il tuo stile grafico. Inoltre sebbene l’approccio alle due dimensioni del racconto sia molto differente (una più legata agli stereotipi del genere, l’altra oltranzista per anarchia affabulatoria) la temperatura drammatica del racconto, anche quando non sei tu l’autore delle storie, non dimentica il legame con la “vita vera”: un tic o piccoli dettagli del disegno ci riportano alla sporcizia del reale. Forse la questione rispetto ai due differenti approcci, uno seriale l’altro personale, va pensato in termini di immedesimazione/identità. Che ne pensi?

Credo sia stato importante per me, e sono molto grato a Carlo Ambrosini, fare questa “palestra” di fumetto in bianco e nero, su carta poverissima, dove ciò che conta davvero è il raccontare una storia. Quando lavoro per Bonelli mi diverto e mi incazzo esattamente come con Zeno Porno ed è  chiaro che qualcosa di me stesso finisce anche in queste storie. Anche se non faccio capolavori che cambieranno la storia del fumetto il mio grado di partecipazione emotiva  è molto alto.

Con Zeno porno e il seguito ideale La magnifica desolazione, gli ultimi tuoi lavori più personali, esplode la tua interiorità e la tua sperimentazione linguistica. Zeno è nato in maniera programmatica per una rivista erotica, è uno che bighellona e si interessa di pornografica, ma nel tempo si è evoluto sovrapponendosi sempre più al suo autore. Le sue storie sono aperte, sono cartina di tornasole del contemporaneo e del presente dell’atto creativo. Tutto quello che ti circonda può entrare nella storia che può prendere delle sterzate non previste. L’unica regola di composizione è quella di non avere regole. Come lavori?

Sì, Zeno è nato come dici tu, volevo raccontare la vita di un fruitore di pornografia convinto che l’idea di “girare di 180° la macchina da presa” fosse sufficientemente originale. Ben presto il personaggio mi è sfuggito di mano e ha preso connotazioni impreviste, diventando qualcosa di diverso, di personale e di imbarazzante. Nel corso degli anni è cambiato , come il sottoscritto, e sono cambiate le sue storie, all’inizio erano molto più caotiche e allucinate, ora più “normali”e corali. Zeno è un personaggio che intendo usare ancora a lungo, anche se non c’è più traccia del programma iniziale (se non questo nome imbarazzante) ed è tuttora in fase di trasformazione.

Molti episodi de La magnifica desolazione hanno una narrazione destrutturata. Sono storie di matrice autobiografica che sedimenti nel tempo, e nascono sulla carta anche attraverso il disegno, la grafica e la ricerca visiva che si fa significato. Quando inizi una storia ti è chiaro di cosa racconterà? Non intendo la trama, ma di cosa parlerà per davvero. Di che cosa parla La magnifica desolazione?

La maniera migliore di rispondere a questa domanda è citare una canzone che non ho citato ne La magnifica desolazione. E’ una canzone di Battiato, fa: “… cerco un centro di gravità permanente…”

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