BilBolBul presenta: Elena Guidolin
Elena Guidolin è nata a Vicenza nel 1985 e ha studiato Fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha collaborato, tra gli altri, con G.I.U.D.A. Edizioni, IFIX Studio e Graphic News e partecipato a diverse collettive in Italia e all’estero. Vive e lavora a Bologna.
Quest’anno il BilBolBul compie dieci anni. Dal tuo punto di vista, qual è stato l’apporto che ha offerto nel panorama italiano delle sempre più numerose manifestazioni dedicate al fumetto?
Credo che il merito di Bilbolbul sia sempre stato quello di voler trattare il fumetto come un medium maturo in grado di dialogare alla pari, da un lato, con altre e diverse forme espressive (dalla musica, al cinema, al teatro…) e, dall’altro lato, con il “mondo” e la sua complessità. L’approccio “transmediale”, se così si può dire, del festival e la volontà di ragionare sul mezzo, facendolo allo stesso tempo parlare con la sua propria voce; le proposte di autori e lavori anche sconosciuti in Italia.
La tua mostra (e il tuo prossimo fumetto pubblicato per Beccogiallo) tratta di un tema molto spinoso, soprattutto in Italia: la tortura. Come è nata l’idea di rappresentare questo tema?
Il progetto è nato per iniziativa di Renato Sasdelli che, tra le altre cose, si occupa da tempo del tema, avendo studiato in particolare il caso della facoltà di Ingegneria di Bologna: una “villa triste” in cui, durante gli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, repubblichini e occupanti nazisti hanno perpetrato torture e abusi su partigiani o presunti tali. L’idea era quella di ampliare il discorso, riflettendo sulla pratica e le sue implicazioni ed evitando nel contempo retorica o moralismi. Renato per primo ha pensato che il fumetto fosse il mezzo più adatto, Andrea ed io siamo stati poi contattati da Marco Ficarra di Studio RAM, che ha curato il libro e tutte le fasi di lavorazione. È stato un vero e proprio lavoro di gruppo, un dialogo continuo tra autori e curatori.
Hai uno stile molto carismatico, sfruttando il forte contrasto tra nero e bianco, come in una xilografia. Come hai sviluppato questo gusto e con quali strumenti sei solita lavorare?
Forse questo deriva più da una passione – molto disordinata, comunque – che ho per un certo tipo di fotografia, come quella di Mario Giacomelli; forse ho una certa propensione per il tragico, non so. In generale, mi trovo bene nel bianco e nero perché mi costringe a cercare delle soluzioni. Disegno con pennelli rovinatissimi e un po’ tutto ciò che mi capita sottomano: cartoncini, spago, spugne, spazzolini… Mi piace sfruttare i materiali grezzi, vedere che cosa succede quando entrano in contatto, trovare l’estemporaneità del segno. Quando e se ci riesco.
Molto spazio nel programma del BBB è dedicato all’infanzia. In che modo ti sei approcciata al fumetto, e quale credi sia la formula più adatta per far avvicinare un bambino a questa forma espressiva?
Quand’ero piccola giravano molti fumetti in casa, mi ricordo Ranxerox e i cartonati del Giornalino. Poi ho sempre disegnato, dappertutto. Anche sui muri, con grande gioia dei miei. Volevo raccontare delle storie ma le parole mi sono sempre sembrate pericolose, nel disegno potevo (posso) espormi in maniera diversa, anche tacendo.
I bambini, comunque, disegnano, tutti, e tutti raccontano delle storie. Sanno già fare fumetto, magari poi se ne dimenticano. Forse andrebbe dato più spazio a formule laboratoriali e a una cultura del racconto, del pensiero creativo, più che della nozione.
Intervista realizzata via mail a novembre 2016.
AL FESTIVAL
I SEGNI ADDOSSO
STORIE DI ORDINARIA TORTURA
25 NOVEMBRE ~ 7 DICEMBRE
RAM HOTEL
A cura di
Ram Hotel