Il Giardino delle storie
È indubbio merito dei graphic novel avere imposto per il fumetto una visuale decisamente nuova, il fatto cioè che questo tipo di storie sono decisamente letteratura. Ma anche prima che il graphic novel si imponesse, diventando una specie di moda, oltre che, beninteso, una importante dimensione innovativa del fumetto stesso, c’erano autori – e non rari – le cui opere erano, quali più quali meno, intrise di un’aura letteraria. Se non altro nel senso che esse evidenziavano legami non fatui con questa o quella corrente letteraria oppure avevano contenuti riconducibili a dignitose parafrasi di un qualche momento della Storia, proprio quella con la maiuscola. Fra gli autori di questo genere, Vittorio Giardino è senza dubbio uno dei più significativi.
La sua è una “letterarietà” evidenziata fin dall’esordio, 1979, con il personaggio Sam Pezzo: che è un tipico investigatore privato da hard-boiled school, con le caratteristiche di non-eroe, ironico e amaro. E dalle cui storie traspare con evidenza il debito di ispirazione di Giardino verso un raffinato autore letterario di “genere” quale fu Raymond Chandler, creatore del “romantico” investigatore Philip Marlowe. Solo che Giardino è ormai – quarant’anni dopo – un fumettistico Chandler più smagato, che ha perso l’innocenza. E Sam Pezzo è un personaggio più incarognito di Philip Marlowe, investigatore in una città anonima, che è peraltro una riconoscibile Bologna. Dove si dipanano non tanto degli arzigogolati mistery, quanto dei violenti racconti d’azione, veri noir, quindi gialli metropolitani capaci di dipingere una città dura, come poteva essere la Milano di Giorgio Scerbanenco o di Piero Colaprico. E come avviene in letteratura – dove una parte di ciò che un tempo era “genere” è ormai da una ventina d’anni acquisito al livello di letteratura tout court – così anche il serial Sam Pezzo, visto e valutato oggi in un’ottica più aggiornata, si può ritenere un valido esempio di graphic novel, intesa appunto come un fumetto letterariamente valido.
Sono considerazioni che valgono ancora di più per la successiva creatura di Giardino, Max Fridman (1982), una serie di spionaggio ambientata, all’inizio, negli anni Quaranta fra Balcani e Medio Oriente. Quindi, ancora, un riferimento letterario abbastanza tipico. Fridman sembra essere un personaggio uscito dalla fantasia di Eric Ambler, il grande scrittore che praticamente inventò la spy story moderna, autore di capolavori quali La maschera di Dimitrios, Una sporca storia, o Topkapi, di ambiente balcanico. Ma anche di altri romanzi sullo sfondo di altre zone calde del mondo, nelle quali l’autore seppe sempre essere sorprendentemente profetico sulle vicende dei paesi trattati nelle sue narrazioni.
Max Fridman è un insolito agente segreto francese al servizio della “Ditta”, uno specialista in disastri internazionali. Il suo è un esordio canonico: dentro al Grande Gioco c’è già stato – è cioè appartenuto ai Servizi Segreti – ma ne è uscito. Solo che, pena un ricatto, viene costretto a rientrarvi una tantum per una questione di emergenza. Da come si presenta, da come agisce, non è un esibizionistico James Bond, “bello e impossibile”, donnaiolo e capace di qualunque impresa. Al contrario, Fridman sembra un “uomo senza qualità”, ma è soltanto apparenza. Quanto sia azzeccata, quanto realistica la messa a punto di un personaggio secondo tale parametro, lo evidenzia un fatto drammatico che ha coinvolto proprio l’Italia nel 2005: quando alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, rapita dai terroristi della Jihad islamica mentre si trovava a Baghdad, provvide un “ometto” anonimo e ignoto, Nicola Calipari. Il quale, in quella specifica circostanza, dovette invece uscire allo scoperto, rivelandosi per quel che era, un prezioso agente dei servizi di sicurezza italiani, insomma una spia dai canonici requisiti dei romanzi del settore. E autentico eroe, che purtroppo nell’impresa perse la vita.
In effetti, è proprio questa la realistica entità di Max Fridman: nelle sue vicende si rivelerà capace di sfuggire a micidiali trappole. All’occorrenza, che nervi d’acciaio sa sfoderare! E che prontezza di riflessi! Lanciare lontano una borsa, per la fulminea intuizione che esploderà dopo un istante. Gettarsi provvidenzialmente a terra, una frazione di secondo prima dello sparo che lo colpirebbe, perché con la coda dell’occhio – sempre sul chi vive! – ha intercettato un movimento sospetto. Saltare dall’auto in corsa, non appena intravede la possibilità di seminare gli inseguitori, balzando sull’autobus che sta giusto per partire… Senza qualità? Forse ne ha fin troppe, tanto da lasciare intuire talvolta d’essere un po’ anti-eroe, che è la maniera altra di essere “eroe”. Max Fridman è davvero un non-eroe: uno coi piedi per terra, solido realista, senza ideologie inculcate ma con certe proprie idee ben chiare, e ben radicato sullo sfondo concreto della storia. Nelle pagine di Rapsodia Ungherese e di La porta d’Oriente, le prime due splendide spy-story di cui Max Fridman è protagonista, si respira tutta la passione dell’autore per il cinema e la letteratura, i filtri colti tramite i quali egli propone la storia. E le vicende sono scandite da un grande ritmo nell’azione.
Giardino ricostruisce con segno raffinato le atmosfere di Budapest come di Istanbul, ricreando il clima degli anni Trenta, dove Max Fridman si aggira apparentemente indifeso. Non lasciamoci ingannare: Max è in grado, grazie al suo cervello analitico, di districarsi dalle trappole più insidiose, da vero “gentiluomo di ventura” prigioniero di un’epoca che non ha più eroi. Per cui nelle pagine di quei racconti, Max Fridman conduce il lettore in quel momento storico di un’Europa tutta complotti e intrighi, dove le tensioni politiche stanno per fare esplodere la Seconda guerra mondiale. Ma non sarà diversamente per il racconto successivo, che vede Max Fridman impegnato sul fronte della guerra civile spagnola; episodio che, nel corso della sua creazione, si è andato dilatando a dismisura – da uno a tre volumi – fra le mani dell’autore, proprio grazie al suo coinvolgimento per la storia della Spagna di quel periodo. Come, per esempio, ne era stato coinvolto Ernest Hemingway, che vi ambientò poi il suo celebre Per chi suona la campana, diventato popolare anche per la trasposizione cinematografica interpretata da Gary Cooper e Ingrid Bergman; come ne era stato affascinato André Malraux, autore a sua volta di un’opera ambientata in quel conflitto fratricida, come La speranza; o come ne era stato trascinato Georges Bernanos, autore della altrettanto famosa requisitoria contro il franchismo I grandi cimiteri sotto la luna; e come vi era stato attratto Robert Capa, uno dei più celebrati fotoreporter mondiali, il quale fra l’altro vi scattò quella istantanea del miliziano che cade colpito a morte, diventata una delle più discusse immagini della storia della fotografia, autentica icona della Storia tout court.
Ecco dunque alcuni esempi di come anche Vittorio Giardino opera nel contesto di una fitta interdipendenza e di un vivido dialogo interculturale tra il fumetto – l’arte espressiva da lui praticata – e la letteratura, il cinema, la fotografia, ossia altri media che caratterizzano la nostra società. Senza contare che in realtà tutta la sua opera è impregnata di questo spirito. Dalla serie Jonas Fink, tuttora non conclusa, che si svolge nella Praga degli anni Cinquanta sullo sfondo delle purghe staliniane, alla nutrita serie di racconti brevi, che nell’insieme costituiscono una finestra aperta sulla società e il costume dei nostri tempi. È come dire: un fumettaro dai cui lavori traspare lo spirito di uno storico e di un sociologo, che sa esprimersi a livello di un autore solidamente letterario.
DURANTE IL FESTIVAL:
21 Febbraio • H 15 – SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI – AULA 3
23 Febbraio • H 18 – CINEMA LUMIÈRE