Il fumetto della crudeltà: qualche idea sul lavoro di Ruppert & Mulot

Il fumetto della crudeltà: qualche idea sul lavoro di Ruppert & Mulot

«È la coscienza a conferire all’esercizio di qualsiasi atto della vita un colore di sangue,
una nota crudele, poiché è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno».
(Antonin Artaud, Prima lettera sulla crudeltà)


Fumetti come una danza, dove per danza bisogna intendere una sequenza di movimenti esatti, senza nulla d’inutile o di ornamentale. Oppure, fumetti come una drammaturgia fatta di parole taglienti e vuote, di fronte alle quali si può solo ridere e specchiarsi con un certo disagio. O ancora: fumetti come un gioco, che per essere giocato richiede coraggio e intelligenza e che comunque è sempre al massacro.
L’arte di Ruppert e Mulot, per nulla ostica e anzi tutta rivolta a comunicare col lettore, appare tuttavia complessa. Probabilmente perché risveglia nel corpo del fumetto muscoli atrofizzati dal non uso, e perché alcuni dei principi attivi che si porta dentro non sono stati estratti, come al solito, dal cinema o dal romanzo, ma dalle arti perfomative.
Dire che questa coppia sia la cosa migliore che sia capitata al fumetto europeo negli ultimi dieci anni è più un’ipotesi di ricerca che un giudizio estetico. Il fine di queste poche righe è allora quello di cercare le parole per descrivere il loro lavoro e, contemporaneamente, abbozzare qualche suggestione sul suo funzionamento.

Marionette e massacri
A un primo sguardo, quello che i fumetti di Florent Ruppert e Jerome Mulot mettono in scena – in maniera tanto precisa e con un controllo tale da potersi permettere talvolta l’improvvisazione – è lo spettacolo della violenza, dell’idiozia e della sopraffazione. Entrando un po’ più nel merito, qui si mettono in mostra il razzismo, l’omofobia, lo sfruttamento sessuale, il sadismo e il masochismo quotidiani insieme a un’ampia scelta di cosiddette perversioni sessuali, con quella preferita dagli artisti, il voyeurismo, ad abbracciarle tutte. Semplificando, si parla di relazioni sociali, del loro lato oscuro e dell’aggressività repressa dentro di noi, che qualche volta esplode davvero e qualche volta solo nell’immaginazione. Tenete conto che sulla carta non si vede la differenza.
Quando Ruppert e Mulot escono dall’accademia di belle arti, gli anni 2000 sono appena iniziati e il fumetto autobiografico e l’autofiction sono i generi cardine del fumetto nuovo. Anche loro si disegnano, ma non per far precipitare sulla carta frammenti del vissuto e del carattere, al contrario per cancellarlo: si disegnano come fantasmi privati di emozioni, marionette personali con cui giocare (recitare). Nelle prime storie sono testimoni e registi – spesso nel ruolo del fotografo – di eventi paradossali, assurdi, dove però si riconosce nitidissima una coazione a violentare se stessi, gli uomini e le cose, che ha qualcosa di molto, magari troppo, familiare, quotidiano, “normale”.
Un uomo che si fa fotografare con l’elmo da ufficiale prussiano e viene decapitato dal suo boomerang al momento dello scatto, un duello alla spada sullo sfondo di un’orgia sadomaso, i partecipanti a un incontro di dedicaces trasformati in attori di un dramma noir, le atrocità della guerra d’Algeria raccontate in forma di barzelletta… Nessun commento, nessuna empatia, tutto si tiene in equilibrio sul filo dello straniamento e dello humour nero. E non si tratta di andare in profondità, non ancora, le cose sono buie dalla superficie. Almeno fino a Irène et les Clochards (2009), dove, di fronte a una ragazza che si presenta agli autori proponendo di realizzare insieme un’inchiesta sui senzatetto al termine della quale lei si suiciderà, Ruppert e Mulot si tirano indietro. Qui il rifiuto testimonia l’intenzione che il gioco sarà diverso, che si frenerà l’eccesso comico, che l’emozione sarà meno stilizzata, che il dramma sarà raccontato con rispetto, e naturalmente senza pietà, perché una cosa escluderebbe l’altra.

Il segno è sottile, realistico, nel senso che le proporzioni sono esatte, e senza ombre. Una specie di linea chiara che non si chiude mai e che simula incertezza, come se ostentasse la sua natura labile e fittizia, in un’intervista Mulot la chiama “ligne claire fragile”. Gli autori riescono così a rimanere descrittivi lasciando margini variabili all’astrazione. Per inciso, la presenza dei due autori nell’albero genealogico della linea chiara non è affatto una forzatura, soprattutto se si considera che l’importanza che rivestono nella loro opera l’espressività e la varietà del movimento dei personaggi trova in Hergé il suo più limpido precursore.
L’atto più plateale della loro strategia espressiva è però l’obliterazione del volto, sostituito da una V al centro dell’ovale. Annullare la mimica facciale è l’indice più evidente della strategia poetica della coppia. È l’atto estremo che annulla a priori ogni tentazione psicologica per affidare tutto all’azione, che spezza i meccanismi tradizionali di identificazione (in particolare quelli del fumetto attuale fondato sull’introspezione e sull’empatia) e ne produce di nuovi.

L’intento è quello di affidare la resa dell’interiorità alle sole azioni fisiche, al linguaggio del corpo, e lasciare al volto il ruolo di maschera neutra sulla quale il lettore – come lo spettatore del teatro antico o di alcune esperienze di quello contemporaneo – deve scrivere le proprie emozioni. Citiamo ancora il distacco con cui gli autori rappresentano se stessi, oppure Go Go Club, nel quale il rito delle dedicaces viene trasformato in atto performativo e integrato sia al processo creativo che al risultato finale del fumetto, o il progetto La Maison Close, dove Ruppert e Mulot invitano i colleghi a interagire recitando la parte dei clienti e delle prostitute di un bordello. Che i personaggi siano attori (meglio marionette?) è molto più che una metafora.
Analogamente possiamo trovare negli ambienti l’essenzialità concreta di una quinta teatrale. L’economia degli sfondi risponde certamente alla necessità di focalizzare l’attenzione, ma questi sono fatti della stessa materia dei personaggi, il segno che li delimita è lo stesso, per spessore e qualità. Il più dello spazio è vuoto, tanto bianco a dare un’impressione di piena luce, perfetta per chi racconta storie ilari e feroci, per chi in sostanza vuole colpire piuttosto che sedurre. Perché se volessimo catalogare le opere d’arte secondo il bilanciamento di queste due strategie per coinvolgere il fruitore, la seduzione e l’aggressione, quelle di Ruppert e Mulot pendono decisamente verso la seconda. Eccezioni comprese, come la festa di Halloween maledetta di Sol Carrelus, dove abbandonano gli sfondi neutri per una mezzatinta gotica e atmosferica, o come la Parigi muta e struggente di Irène et les Clochard.

Messa in pagina e messa in scena
Nella strategia della provocazione gli elementi parafumettistici occupano un ruolo essenziale. Abbiamo accennato alle dedicaces e ai progetti collettivi, ma è nel sito – che significativamente si chiama La Succursale – che Ruppert e Mulot danno sfogo alla loro vena ludica. In alcuni casi riprendendo e amplificando i giochi cartotecnici già contenuti nei libri, come i fenachistoscopi di Panier de Singe, oppure sviluppando sequenze e personaggi in attività interattive (animazioni, giochi di carte), fino ai Petits Accidents sur Command, dove invitano i visitatori del sito a inviare profili di persone odiate, della quali gli autori s’impegnano a disegnare un incidente letale a scopo catartico. Questo aspetto apertamente ludico può essere messo in rapporto con le precedenti esperienze artistiche della coppia, ma non va assolutamente isolato dai fumetti o considerato come un divertimento fine a se stesso. Dalle installazioni audiovisive e soprattutto dalla performance art – magari quella più violenta e dissacrante che discende dall’azionismo viennese, ma l’ipotesi va verificata – Ruppert e Mulot traggano la centralità del lettore nella loro opera, la necessità del suo coinvolgimento e del suo contributo.
Qualche cautela in più è forse necessaria nel momento in cui, anziché performance art, usiamo la più generica, ma più utile ai fini di questo discorso, parola “teatro”. Porre l’accento sulla finzione o sull’enfasi spettacolare porterebbe fuori strada, il teatro – che in ogni caso ha con il linguaggio del fumetto una parentela tanto evidente quanto poco esplorata – qui ha senso come lavoro sull’espressione mimica, sul ritmo e sul rapporto di questi due elementi con le parole, quando ci sono.
Il contrasto tra l’assurdità svagata dei dialoghi con l’impassibilità della maschera e il sadismo delle azioni gioca a portare all’estremo, fin quasi al punto di rottura, l’ultracinismo della comicità contemporanea. È un umorismo triviale eppure elegante che a volte accumula parole solo per strozzarne la profondità semantica, trasformarle in rumore. A volte il dialogo si dipana in un sistema di balloon a lettura verticale, dall’alto verso il basso, con i personaggi a figura intera nella parte bassa della pagina. “Arborescences” le hanno definite gli autori, e ancora una volta l’analogia più è immediata è di ordine teatrale, figure su un palcoscenico.


Ai personaggi immobili e dialoganti si accompagnano sequenze di sola azione, dove il gesto è descritto nei minimi particolari, qui il movimento è così esatto e scandito che l’impressione è comunque quella di una sequenza di fermo immagine, più che il cinema, il referente potrebbe essere la cronofotografia di Muybridge.
Ma questo procedimento che smaschera ogni illusione di dinamismo deve la sua efficacia a una illusione di staticità, o meglio a una staticità sempre vibrante che assorbe il ritmo delle passioni, sia nella messa in pagina che nella precisione con cui i corpi dei personaggi vengono fatti muovere. Per questo, nonostante la distanza dello sguardo e la crudezza del racconto, parlare di freddezza mi sembra problematico: sono fumetti coinvolgenti, in un modo nuovo e diverso. Può essere utile tornare al concetto di straniamento, inteso come insieme di procedimenti per attivare la reazione del lettore, magari proprio nell’accezione applicata al teatro dal Brecht capocomico e regista – più che dal Brecht drammaturgo – nella quale la partecipazione dello spettatore nasce proprio dalla messa in crisi dei processi d’identificazione.
A uno sguardo più attento, poi, anche quelli che sembrano atti di pura violenza – proprio in virtù dell’attenzione dedicata al linguaggio corporeo – rivelano sfumature e tensioni impreviste, e nel gioco delle parti sadomasochistico emergono affetti sottili che il dialogo e lo sviluppo stesso della storia, nella loro ostentata ottusità, sembrano ignorare. Perché i fumetti di Ruppert e Mulot dischiudano un po’ della loro verità bisogna misurarli da distanze diverse, guardarli da vicino, entrarci dentro e poi uscirne e considerarli da lontano, più volte, bisogna prenderne coscienza. Da qui – per suggestione e per ipotesi – nasce il titolo di questo articolo, che fa slittare il senso della parola “crudeltà” dalla descrizione di un contenuto verso l’indicazione di un metodo, quello descritto e profetizzato da Antonin Artaud, in pochi testi perentori e ossessivi, sotto il nome di teatro della crudeltà. Il termine acquisterebbe allora il senso di applicazione e rigore, di precisione, di principio per attivare le forze vive, ma sopite, all’interno del fumetto. Spingersi oltre sulla strada di simili analogie (R&M e Pina Bausch? R&M e Hermann Nitsch?) non è necessariamente una buona idea, da questo punto in poi il peso dei rischi potrebbe superare quello dei vantaggi. Rimane spunto per riflessioni ulteriori, e una porta per entrare nel mondo di Ruppert e Mulot, che è qualcosa di molto semplice e al tempo stesso di molto complicato, qualcosa di radicalmente nuovo.


L’esposizione
Ruppert e Mulot – Il teatrino dell’ebrezza
presso il Museo Internazionale e Biblioteca della Musica rimarrà aperta dal 4 Marzo al 3 Aprile

La residenza d’artista
presso l’Hotel Al Cappello Rosso sarà inaugurata il 6 Marzo

archivio.bilbolbul.net/it/ruppert_e_mulot

1 Comment

  1. trabacchini su ruppert&mulot « · 3 marzo 2011

    […] Fumetti come una danza, dove per danza bisogna intendere una sequenza di movimenti esatti, senza nulla d’inutile o di ornamentale. Oppure, fumetti come una drammaturgia fatta di parole taglienti e vuote, di fronte alle quali si può solo ridere e specchiarsi con un certo disagio. O ancora: fumetti come un gioco, che per essere giocato richiede coraggio e intelligenza e che comunque è sempre al massacro. Leggi l’articolo completo […]

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: