Pietro Scarnera, il peso di un addio
Intervista apparsa su www.lospaziobianco.it nell’Ottobre 2010.
Diario di un addio è il titolo del libro con cui Pietro Scarnera ha vinto la selezione 2009 del concorso per giovani disegnatori dell’Emilia Romagna legato al Festival Komikazen.
Il giovane autore bolognese ha voluto raccontare i cinque anni vissuti accanto al padre, in stato vegetativo: un’esperienza dolorosa realizzata con l’intento di mostrare una realtà difficile da immaginare.
Abbiamo incontrato l’autore che ci ha spiegato del perché di questa scelta.
Con “Diario di un addio” hai vinto il premio Komikazen 2009: come è maturata in te la scelta di sottoporre l’idea del tuo libro d’esordio agli organizzatori del concorso?
L’esigenza di raccontare la storia di mio padre, e le cose che ho visto stando accanto a lui, è nata in seguito alle polemiche sul caso di Eluana Englaro. Mi sembrava che quasi tutti parlassero a sproposito, senza conoscere davvero l’argomento. In particolare mi sembrava evidente che tutti avevano in testa un’immagine falsata del coma e dello stato vegetativo, che poi è quella che vediamo tutti i giorni in tv o al cinema: una persona che dorme, con un’aria pacifica e serena. Nei fatti le cose non stanno assolutamente così. Nel libro tento appunto di far vedere le condizioni in cui vive una persona in stato vegetativo. All’inizio però non sapevo se sarei stato in grado di raccontare una storia così delicata, così partecipare a Komikazen è stato prima di tutto un modo per avere un parere esterno ed esperto. È stato importante sapere che c’era fiducia attorno al mio progetto.
Chi ti ha seguito nella realizzazione del progetto e come ti sei trovato a collaborare con l’editore Comma 22?
Per tutto quest’anno ho fatto riferimento a Daniele Brolli e devo dire che è stata un’ottima guida. Soprattutto tenendo conto che prima di questo libro non avevo mai realizzato neanche una storia breve. Infatti rispetto alle tavole che avevo spedito a Komikazen il progetto è cambiato radicalmente. Penso che Daniele sia stato bravo a dirmi quando qualcosa non funzionava senza dirmi però come dovevo fare le cose.
Perché hai deciso di realizzare un fumetto su questa esperienza personale così dolorosa?
Perché sullo stato vegetativo non c’è un’informazione corretta. Nonostante tutto il clamore mediatico, pochissimi hanno spiegato come vive una persona in queste condizioni. Io ho scelto di farlo con il fumetto perché volevo far vedere le cose: le espressioni del volto, le trasformazioni del corpo, le apparecchiature mediche e le stanze d’ospedale. È una realtà così difficile da immaginare che secondo me la parola scritta da sola non poteva bastare. Allo stesso tempo le fotografie e i video sono troppo invasivi, e a mio parere sono una violazione della dignità di chi non è in grado di esprimere la propria volontà.
Nel volume ci sono anche le postfazioni di Beppino Englaro e Fulvio de Nigris: attraverso il tuo lavoro qual è il messaggio che vuoi trasmettere?
Volevo che il mio libro fosse una base per una discussione seria sullo stato vegetativo e sulle scelte etiche che vi ruotano attorno. Ovviamente la mia è solo una delle storie possibili, ma noto che da qualche tempo le testimonianze dei familiari sono più numerose. È un fatto positivo, perché solo chi ha vissuto un’esperienza di questo tipo può raccontarla. Beppino Englaro e Fulvio De Nigris rientrano entrambi in questa categoria, e sono persone che stimo moltissimo. Anche se hanno opinioni opposte. Volevo che spiegassero le rispettive posizioni, mettendo da parte almeno per una volta le polemiche. Per quanto riguarda il messaggio, nel mio libro io volutamente non prendo posizione, proprio perché non voglio influenzare in nessun modo il lettore. Penso che ognuno debba essere libero di scegliere, a patto che la scelta sia consapevole, informata e non dipenda da fattori esterni come la scarsa assistenza sanitaria o le difficoltà economiche.
Nel tuo blog racconti di avere sempre avuto l’abitudine di portare in giro con te un taccuino su cui disegnare, abitudine che ti ha accompagnato anche durante i cinque anni di stato vegetativo in cui versava tuo padre: quando hai deciso di trasformare i tuoi schizzi in un racconto vero e proprio?
In realtà sui miei quaderni i disegni attinenti alla storia di mio padre non sono moltissimi. Molti li ho buttati, molte pagine le ho strappate, perché disegnare certe cose all’epoca mi metteva a disagio, mi faceva male. Del resto erano disegni molto “disturbati”. Alcuni li ho recuperati per le tavole che ho spedito nel 2009 a Komikazen, però per il libro ho usato uno stile molto diverso.
E’ difficile raccontare in un numero limitato di pagine i lunghi anni vissuti accanto a tuo padre: credi di essere riuscito a trasmettere quella sensazione di tempo sospeso a cui fai cenno nel libro?
Non saprei se ci sono riuscito… però vorrei dire che l’obiettivo principale non era quello. Era più importante raccontare la storia in tutto il suo svolgimento, dalla rianimazione ai primi mesi di speranza, fino alla routine della vita in clinica.
Come hanno reagito, alla pubblicazione del volume, le persone che ti sono state vicino e che hanno vissuto con te questo dramma?
C’è stato forse un po’ di disagio all’inizio, quando ho detto in famiglia che avrei raccontato la storia di mio padre, e che l’avrei fatto con un fumetto. Ma è stato solo un momento, poi mi hanno dato subito fiducia. Quando sono arrivate le copie stampate forse sono stati più sollevati per il mio stato psico-fisico che felici per la pubblicazione del libro…
Perché hai deciso di illustrare questa storia con uno stile grafico così essenziale e poco realistico?
Bé, io sono un autodidatta e mi rendo conto che il mio modo di disegnare è ancora molto acerbo. Per questo libro però mi sembrava anche funzionale: un po’ perché è il racconto di un figlio, un po’ perché non volevo disegnare in modo realistico mio padre. Sempre per il discorso di non offendere queste persone, per mantenere un certo grado di pudore. Questa poi è diventata una delle chiavi del racconto: la sensazione di non riconoscere mio padre, che ho avuto fin dal primo giorno in rianimazione, è stata resa anche graficamente. Mio padre in coma è disegnato in un modo, mio padre come lo ricordo io è disegnato in un altro.
Ci sono degli autori a cui ti sei ispirato o che hai preso come esempio mentre lavoravi al libro? Quali fumettisti prendi a modello?
Più che degli autori direi che c’è una consapevolezza che pian piano il fumetto ha acquisito: quella di poter affrontare in modo efficace qualunque argomento, dall’Olocausto (Maus) alla malattia (Il grande male), riuscendo in molti casi a dire qualcosa in più rispetto ad altre forme d’espressione. Se dovessi fare un nome comunque direi David B.
Qual è il tuo percorso professionale, che studi hai svolto?
Ho studiato al liceo Classico, poi mi sono laureato in Scienze della Comunicazione a Bologna. Ho fatto una tesi sull’editoria dei fumetti, ma questo è l’unico collegamento che riesco a trovare con il libro.
Dato che ti occupi di giornalismo e comunicazione puoi dirci che valore attribuisci al fumetto, e in particolare al fumetto di realtà?
Lo stesso valore che hanno tutte le altre forme d’espressione. Tutto dipende da chi usa il fumetto e da che cosa ha da dire.
Credi che in futuro realizzerai altri fumetti? Stai già lavorando a un nuovo volume?
Ho già un’idea ma non ci sto ancora lavorando. Mi piacerebbe molto continuare, sono ansioso di vedere cosa succederà nel momento in cui affronterò una storia non personale. E poi dicono che dopo il primo libro gli altri vengono più facili.
Riferimenti:
Pietro Scarnera, il blog: pensieridieri.blogspot.com
Komikazen, festival del fumetto di realtà: www.komikazenfestival.org
Comma 22: www.comma22.com
La mostra
Pietro Scarnera – Diario di un addio
presso la Libreria Feltrinelli Ravegnana sarà aperta dal 4 al 31 Marzo.
archivio.bilbolbul.net/it/pietro_scarnera