Colpire nel segno: intervista ad Andrea Bruno
Leggendo le tue storie mi ha sempre colpito l’originalità dell’approccio narrativo, la trama spesso volutamente solo accennata, quasi ermetica, e ovviamente le tavole dal forte impatto visivo. Di fronte ad autori dalla forte personalità, mi viene sempre da chiedere qual è processo creativo per la realizzazione delle loro storie. Quindi, tu da dove inizi? Da un’idea di sceneggiatura, da un’immagine o direttamente sulla tavola?
Il punto di partenza è quasi sempre un’atmosfera, un’ immagine. Soprattutto nella fase iniziale della lavorazione di una storia (il momento per me più affascinante) tendo a privilegiare gli elementi visivi rispetto al “plot”.
Colpisce nei tuoi ultimi lavori e soprattutto in Sabato tregua, la forza espressiva delle tue tavole, in cui le singole vignette, ma anche la loro totalità, si possono quasi considerare delle illustrazioni. Nonostante ciò esse non perdono mai la loro funzione narrativa all’interno di un sistema di codici prettamente fumettistici. Trovo che questa sia una delle peculiarità del tuo lavoro. E’ una scelta voluta e consapevole oppure al contrario è puramente istintiva?
Direi che si tratta forse del risultato di una logica evoluzione del mio stile e delle mie scelte.
Le premesse di questo discorso riesco a vederle già nei miei primissimi lavori, posso dire che da quando ho cominciato non ho mutato molto del mio atteggiamento nei confronti del fumetto. La scelta di dare centralità al segno, ha a che fare con la semplice idea che per un disegnatore il segno sia la cosa più importante che si ha a disposizione.
Mi sembra che le tue tavole vivano quasi su un limite tra una concezione rappresentativa-narrativa e il desiderio di sembrare quasi delle illustrazioni astratte.
Io non sono interessato all’illustrazione e nemmeno all’astrazione, quanto meno all’interno del linguaggio fumetto. Sono interessato al segno.
Nel fumetto naturalmente il segno si pone al servizio del racconto, ma io sono molto attratto dalla possibilità che questa relazione prenda la forma di uno scontro, in modo che il segno infine risulti non completamente “addomesticato” alla funzione narrativa e mantenga una sua forza per così dire “brutale”. Il segno può forse rappresentare l’altra parte del racconto, quella per cui le parole non bastano.
Rimanendo in tema, sono molto impressionato dall’evoluzione grafica di Sabato Tregua, soprattutto dalla quantità di neri che macchiano la tavola. Ho letto da qualche parte che usi anche il bianchetto per sottrarre nero dal disegno. Puoi spiegare meglio come realizzi una tavola tipo?
Per la verità non possiedo un metodo fisso che funziona sempre. Posso dire che in genere il lavoro su story board e bozzetti è quasi inesistente. Le matite possono essere vaghe (il più delle volte), dettagliate o a volte persino assenti. La fase sulla quale certamente mi concentro di più è l’inchiostrazione. Adopero inchiostro di china, bianchetto da ufficio, svariati pezzi di cartoncino.
Prima parlavo di disegno quasi astratto. Nel limite evidente di questa definizione trovo però un aggancio anche per definire un aspetto della tua narrazione, che ha in sé un certo grado di astrazione. Cosa ne pensi?
Mi piace l’idea che possa riconoscersi una analoga tendenza all’astrazione sia nel disegno che nelle storie. Non era in principio una cosa voluta, anzi era forse un risultato delle mie lacune come scrittore/sceneggiatore. (su questo aspetto aggiungo delle cose nella prossima risposta)
Quasi mai le tue storie paiono finite e di solito raccontano una parte di una vicenda che si può solo intravedere, intuire, immaginare. Al di là della fotografia di questo frammento di storia che tu racconti, come in Sabato tregua, c’è nella tua testa ben presente quello che invece non racconti, quello che invece lasci sospeso?
No, ed è proprio questo che mi piace. Mi affascina molto l’immagine di questi frammenti di racconto che letteralmente emergono dal nulla. E non provo il desiderio di saperne di più, di riempire questi vuoti. Secondo me dire troppo rischia di far perdere forza ai “pezzi” di racconto che sono emersi.
Quello che appare più evidente dai tuoi fumetti è lo sguardo costante sulle periferie che siano quelle delle città o di una società che ha perso definitivamente speranza e coesione, ma anche le periferie che potremmo definire esistenziali. Però non mi sembra che nei tuoi fumetti siano presenti messaggi “sociali” o “politici” ben definitivi, ma bensì il tuo sguardo, la tua lettura di una società.
Sì, è vero. Non sono tanto interessato alla denuncia sociale o all’invettiva, quanto piuttosto, come dici tu, a fornire un mio sguardo, una mia lettura, dove semmai la denuncia sta nelle premesse, in ciò che nel racconto viene dato per scontato e che costituisce per così dire l’esistente in cui essa si svolge (per esempio la guerra in brodo di niente). In un certo senso la realtà si denuncia da sola, noi che raccontiamo storie dobbiamo soprattutto trovare il nostro punto di vista, la nostra posizione.
Sabato tregua si caratterizza per un formato editoriale inusuale, gigante, quasi poco maneggiabile, ma estremamente affascinante. Credo che il tuo disegno ne guadagni assolutamente. Come siete arrivati a questa scelta e quali motivazioni artistiche/culturali ha?
Il grande formato è l’idea che sta alla base di sabato tregua. Si tratta di una mia scelta, assecondata con entusiasmo da canicola e miomao che hanno coprodotto l’albo. Avevo voglia di cimentarmi con le grandi dimensioni (anche gli originali sono più grandi del solito) e inoltre mi piaceva l’idea di ricollegarmi in qualche modo al fumetto delle origini nato sulle grandi pagine dei quotidiani.
Per il tuo modo di intendere il fumetto c’è qualche fumettista italiano o straniero che senti vicino?
E’ una domanda difficile alla quale rispondere perché non ho voglia di fare nomi di altri fumettisti, amici e colleghi.
Diciamo che apprezzo molto l’inventiva, la coerenza, l’originalità e gli autori dalla forte identità grafico/narrativa. Non apprezzo troppo tutti quei libri a fumetti che mi appaiono carenti nelle scelte di fondo, che sembrano nascere più per generica emulazione di altri autori, generi e tendenze al momento in voga.
L’esperienza di Canicola, di cui sei uno dei fondatori, pensi sia stata importante per la tua crescita artistica? E se sì, in quale aspetto del tuo lavoro?
L’esperienza di Canicola è stata, e continua ad essere seppure in forme diverse, importante, bella e gratificante.
Per me canicola ha significato la vicinanza, lo scambio e l’amicizia con altri autori, ma anche il piacere (e la fatica) del lavoro editoriale, del produrre i numeri della rivista e i libri, e infine anche la proiezione internazionale che ci siamo dati da subito e che ha portato viaggi, riconoscimenti e nuove relazioni con realtà straniere simili alla nostra.
Per chiudere quest’intervista, ci puoi anticipare cosa si devono aspettare i visitatori della tua mostra all’interno di Bilbolbul?
La possibilità, per chi fosse interessato, di vedere gli originali di sabato tregua nella cornice di un insolito negozio/galleria, e poi, naturalmente, tanto alcol.