Con Claudio Calia lungo le tappe del “Piccolo atlante storico geografico dei centri sociali italiani”
Pubblicato a febbraio 2014 per BeccoGiallo, il Piccolo atlante storico geografico dei centri sociali italiani è il nuovo fumetto di Claudio Calia. Già autore con questo editore di opere di “impegno civile” come Porto Marghera – La legge non è uguale per tutti (2007), È primavera – Intervista a fumetti a Antonio Negri (2008) e Dossier Tav, una questione democratica (2012), Claudio Calia ritorna con un fumetto dall’intento altrettanto “impegnato” e impegnativo: quello di restituire un quadro il più chiaro possibile di una realtà multiforme, quella dei centri sociali italiani. Spesso vittima di giudizi approssimativi dettati da una conoscenza sommaria, la rete che Claudio ci racconta è invece fatta di persone, esperienze e iniziative collettive, fatti entrati nella storia e ritornelli di canzoni oramai passate di moda.
Vorrei partire dalla fine. Saltiamo quindi la Prefazione di Zerocalcare, croce e delizia del tuo fumetto che tu stesso ironicamente, e molto ingiustamente, definisci “una postfazione troppo lunga a un bel fumetto di Zerocalcare”.
Vorrei partire dalle ultime tavole in cui ti si vede, vignetta dopo vignetta, crescere negli anni e cambiare aspetto, ma continuare un discorso, quello sui centri sociali e la partecipazione attiva, che ti riguarda sin da adolescente.
Vorrei partire dalla citazione degli Assalti Frontali, “Io metto la faccia e questo cuore sembra di un marziano / questa banda mette i brividi e mi fa artigiano / con queste mani costruiamo nuovi spazi vitali”, perché tu, Claudio, la faccia ce l’hai messa con questo fumetto.
Partiamo dunque da qui, da quello che ti ha spinto a farlo e, perché no, dai timori di poter essere giudicato sia da coloro che sanno poco o niente sul mondo dei centri sociali, sia da coloro che invece li tengono vivi, e rischiavano forse di essere i giudici più severi. Perché hai scelto di scrivere questo fumetto e cosa temevi potesse non essere capito o criticato?
La cosa della “postfazione lunga” è nata quando un paio di siti hanno pubblicato un “lancio” del libro forse un pelo troppo sbilanciato sul nome dell’autore della prefazione piuttosto che su quello del poco più di centinaio di pagine successive, tra l’altro lasciando, ingenuamente, leggere tra le righe qualche sorta di “accordo editoriale sottobanco” per la presenza di Zerocalcare su un libro di un altro editore, quando come sempre la realtà è molto più semplice della fantasia: a parte conoscere e fare cose insieme a Zero da un sacco di tempo, è proprio leggendo La profezia dell’armadillo che ho realizzato che eravamo presenti a una stessa manifestazione milioni di anni fa, in cui a lui hanno spaccato la testa i nazisti, a me è andata a fuoco la tuta bianca che indossavo, colpito da un lacrimogeno. Insomma, quello che ci unisce è su un piano differente e prescinde dal “facciamo fumetti”. Tangenzialmente, facendo entrambi fumetti, non c’era persona più sensata a cui chiedere un contributo per questo libro.
Detto questo, ammetto che apprezzo molto, e credo tu sia stata la prima a farlo “pubblicamente”, il riferimento al me che “cresco tra le tavole”: è un po’ dove mi sono permesso di “spingere” di più sul fumetto, lasciando al lettore tutto lo sforzo interpretativo del caso.
E sostanzialmente il “perché” sta tutto qui: sono cresciuto attraversando questi posti, le persone che li occupano sono letteralmente il mio primario giro di amicizie e frequentazioni, credo nell’importanza sociale di questi posti. Ho voluto in un certo senso provare a raccontare un sentimento generale, cogliere ciò che ci accomuna piuttosto che ciò che ci distingue: dove la stampa rappresenta sempre i “centri sociali” come un vulnus indistinguibile ho voluto controbattere al discorso con pacatezza e misura ma sullo stesso piano. Perché credo che nella mia pazza comunità possiamo essere diversi tra noi, ma con qualcosa in comune che comunque ci distingue dagli “altri”. Per questo direi che la maggior parte delle persone, anche chi magari si riconosce in una sfumatura politica diversa dalla mia, abbia colto il senso più profondo del libro. Tutto ciò a prescindere dalla qualità o meno del mio lavoro. Ma ora che sono passati circa due mesi dall’uscita del libro e ho avuto modo di presentarlo già in una decina (!) di centri sociali, posso dire di esserne sicuro. Per cui, il timore più grave rispetto alle eventuali critiche, a parte possibili ritardatari credo sia scampato.
Nel tour per l’Italia per presentare il Piccolo Atlante in una sorta di “metaviaggio” hai ripercorso quello a fumetti, ritornando negli stessi luoghi in esso attraversati. Com’è allora la reazione della “famiglia”, come è stato accolto la tua opera nei centri sociali in cui sei stato ospite? Si sono riconosciuti nei tuoi ritratti, nel tuo “album di famiglia”?
La cosa bellissima è che ci si riconoscono anche tantissimi che non sono raccontati. Addirittura un paio che ho dimenticato di citare negli elenchi regionali. Perché poi è questo l’equivoco, voluto, dietro al titolo: da un lato mi sono finalmente concesso un titolo “alla Wertmuller”, mi sono sempre piaciuti i titoli lunghi, che ci devo fare, dall’altro è un titolo apparentemente freddo e scientifico, in aperto contrasto con il contenuto molto personale. Ed è in quel “personale” che finora, dall’accoglienza che mi è stata riservata, che chi appartiene alla mia comunità può vedere un pezzo di sé oltre al ricordo della certa data.
Hai ricevuto anche delle critiche che ti piacerebbe condividere con noi?
Purtroppo ce ne sono alcune comprensibili solo alla mia cerchia specifica di militanti dei centri sociali, abbastanza intraducibili “all’esterno”. Basti dire che giusto un paio di volte è entrato in causa il termine “disobba”. Poi alcuni che hanno detto “ma noi non ci siamo” poi ti accorgi che ci sono ma hanno letto solo i nomi selezionati, secondo parametri propri, dall’editore per la quarta di copertina. Su un giornale musicale sono stato fortunato, di due giornalisti che hanno scritto la recensione del mio libro una era positiva e una negativa, e per volontà della sorte è andata in stampa quella positiva, anche se con l’autore della negativa stiamo organizzando un’intervista apposta per duellare sull’argomento. Sostanzialmente, è il libro da cui sto ricevendo più feedback positivi e in poco tempo: da amici e conoscenti e da sconosciuti, da militanti. Da nuovi amici che mi ha fatto incrociare per strada. Mi fa particolarmente piacere avere ricevuto complimenti da un sacco di autori.
“Insomma questo per dire che non ci sono solo spazi e luoghi, ma persone, ricordi e affetti che mi legano indissolubilmente a questo posti”.
Alcuni passi, come quello appena citato e molti altri, lasciano testimonianza del profondo coinvolgimento che ti lega all’ambiente e non solo al tema dei centri sociali italiani. Come quasi sempre accade nei tuoi fumetti, anche qui tu entri a far parte della narrazione, ma in questo caso lo fai in modo ancor più costante e significativo rispetto a quanto accade per esempio in Dossier Tav. Sei testimone storico del loro sviluppo, sei la voce che cantava alcuni dei brani citati, sei uno dei volti che hanno pianto sotto ai lacrimogeni di Genova o che popolavano le piazze di cui si parla. Sei quindi protagonista di questo Piccolo Atlante e della Storia che esso racconta.
Com’è stato l’approccio a quella che in un certo senso diventa la storia di un movimento, ma anche parte della tua storia personale? Come hai scelto cosa togliere e cosa tenere tra gli aneddoti che sicuramente riempivano la tua memoria?
C’è un intento principale che ho voluto mantenere: essere “lieve”. Non impelagarmi in complicate discussioni filosofiche, non partire dagli anni ’70, rendere la lettura il più semplice possibile. Lo considero il mio libro più “leggero”, concepito quasi come se fosse il mio primo fumetto “per ragazzi”.
Nei precedenti il mio ruolo è stato prevalentemente di “personaggio non protagonista” (così mi definì Guglielmo Nigro che conoscete da queste parti), filo conduttore del racconto di altre persone o comunque altre fonti multimediali, questa volta svolgo il ruolo di cicerone vero e proprio, intervisto, ma sono anche costantemente sottoposto a una sorta di autointervista. L’approccio come detto è stato quello di selezionare cosa volessi dire e a chi volessi dirlo, pensando appunto ad un oggetto molto comprensibile: da lì in poi la scrematura di tutto ciò che sarebbe stato superfluo o ridondante è venuta da sé.
Che cosa ci tenevi a mostrare a coloro che non hanno mai frequentato un centro sociale, cosa speravi sapessero su questa rete, a volte invisibile, a volte molto radicata e interconnessa con la popolazione, spesso mobile e variabile, che si stende su tutto il territorio nazionale?
Prima di tutto, lo dico anche a fumetti, che “anche gli spaccavetrine hanno un cuore”. Che dietro a questo magma indistinto dei centri sociali ci sono persone, con i loro affetti, le loro storie, le loro vite. Tanto per sdrammatizzare un po’ il fatto che mediamente vengono raccontati come barbari insensati che si incontrano in una piazza a caso per spaccare tutto. Poi mostrare tutto, tutto quello che c’è dietro “l’eccezionale” di una manifestazione aspra, un arresto, una manganellata: tutto ciò che fa di questi posti spazi aperti tutti i giorni e in cui accadono un sacco di cose. Quantomeno alludere a questo tutto, perché poi senza visitarne uno c’è poco da fare, ed è quello l’invito finale: visitare un centro sociale prima di farsene una opinione definitiva, farsi coinvolgere da una di decine di presentazioni di libri, concerti, cineforum, occasioni sportive, che accadono tutti i giorni in questi posti.
Ci racconti che il soggetto del tuo fumetto è una realtà mobile fatta di “spazi in movimento”, di luoghi intesi come punti di incontro di comunità pronte a lottare per i propri diritti, incontrarsi, discutere, anche divertirsi. Sono luoghi in cui le persone si riconoscono anche se cambiano gli spazi che li ospitano, gli edifici entro cui si collocano. Alcuni di questi spazi si sono persi negli anni, altri hanno cambiato nome o si sono spostati altrove. Perché allora hai scelto proprio la forma di un Atlante, di una geografia, per cogliere quella che è appunto una realtà mobile, la cui mappa si modifica di mese in mese?
Era importante per me rendere la dimensione anche “spaziale” del fenomeno. Ne ho in un qualche modo censiti più di 100, e molti sono senz’altro sfuggiti alla mia ricerca. Facendolo, ho cercato di raccontare attraverso l’esperienza personale di un individuo e nove interviste a militanti e portavoce un senso più profondo, più “quotidiano” dell’esperienza dei centri sociali rispetto al racconto mainstream. I nove spazi selezionati per le interviste sono scelti in base a diverse tipologie che ricorrono: quello che viene sempre sgomberato, quello che ha una convenzione con il comune, quello che non c’è… il libro ha uno scopo informativo, ma che trascende dal dato geografico, che diventa il pretesto formale per dispiegare questo racconto.
AL FESTIVAL
UN VIAGGIO DENTRO I CENTRI SOCIALI
TPOInaugurazione con l’autore
14 novembre ~ h21
a seguire
performance dei Dorian Gray e Davide Toffolo