Intervista a Paolo Parisi
Paolo Parisi è uno dei più interessanti autori italiani degli ultimi anni. Da poco nelle librerie è uscito Coltrane (Black Velvet) una intensa e riuscita biografia a fumetti del famoso sassofonista statunitense. Questo suo ultimo lavoro sarà al centro dell’incontro che si terrà venerdì 6 marzo intitolato appunto “A love supreme – Raccontare John Coltrane”. Nell’intervista che presentiamo Parisi ci parla proprio di questo fumetto.
a cura di Guglielmo Nigro
Perché hai deciso di realizzare una biografia di John Coltrane? Cosa ti affascinava della vita di questa leggenda del jazz?
Adoro Coltrane, la musica jazz, la black music in generale e sono un appassionato di cultura afroamericana. Coltrane è il più importante musicista jazz del Novecento. Il cardine di una musica espressione di una cultura che si esprime nel suo apice in un passaggio generazionale tra due ondate di musicisti. La prima, nata anagraficamente negli anni Venti e cresciuta ascoltando e suonando bebop e gli assolo di Charlie “Bird” Parker, imitandone non solo l’approccio allo strumento, ma anche lo stile di vita, dedito a eccessi di alcool e droghe. La seconda, di dieci anni più tardi, molto politicizzata, che si muove in un fermento socio-politico attivo di autodeterminazione e rivendicazione come quello degli anni Sessanta delle lotte per i diritti civili afroamericani. Pensiamo alla segregazione, al Ku Klux Klan, a Malcolm X, al Black Panther Party for Self-Defence. Coltrane ha spostato l’attenzione su tutta una serie di nuovi musicisti quali Eric Dolphy, Archie Shepp, Albert Ayler, Sunny Murray il cui sguardo musicale è mai così radicale come in quegli anni, anche per una scelta di guardare non più al jazz modale, ma di volgere il proprio sguardo ancora più indietro, riattualizzando spirituals, gospel, work songs, cake-walk e brani della tradizione africana. Inoltre Coltrane intraprende un percorso del tutto personale che lo vede analizzare la struttura dei suoi stessi brani e del beat. Del suono in sé. Quasi a voler smembrare le composizioni, liberandole da schemi rigidi e prestabiliti. Brani “classici” come My Fauvourite Things vengono sezionati quasi alla ricerca di un’origine prima della materia-suono e di capirne l’essenza. Si ascolti l’Olatunji concert o il live in Giappone per capire bene cosa intendo.
La storia si sviluppa attraverso il susseguirsi apparentemente disordinato di frammenti biografici. Come hai scelto i diversi episodi?
Sono partito dalla struttura di A Love Supreme, il suo disco più conosciuto e famoso, unico disco della produzione coltraniana esplicitamente suddiviso in 4 parti che non sono singole tracce, ma che vanno a comporre un’unica (se possiamo chiamarla così) suite. I capitoli del libro sono 4, hanno gli stessi nomi delle 4 parti del disco, a sottolineare il lavoro sulla struttura di cui sopra che da questo momento in poi Coltrane renderà sempre più radicale. La scelta è venuta da sola. Ho dato un forte peso ai rapporti interpersonali, alle sue due mogli, Naima e Alice, al rapporto con Davis, a quello con Dolphy e con Thiele, produttore della Impulse Records per il quale Coltrane ha inciso la maggior parte dei suoi capolavori. Ho dato un forte peso al “fare” un disco e tutte le dinamiche che stanno dietro una session, un concerto live. All’aspetto di musicisti che suonano anni di gavetta nell’anonimato dei clubs, per procurarsi da vivere, ma anche all’espressione che si farà più concreta del determinare se stessi, la propria arte, le proprie origini, la propria esistenza.
La frammentarietà produce da un lato un immediato senso di dinamismo strutturale che muove la storia e contemporaneamente le emozioni del lettore. È un tentativo che potremmo definire “musicale”? Sincopato?
Questo libro non è un semplice libro sulla vita di Coltrane, è un libro sulla musica che nasce dall’ascolto dell’opera coltraniana. È un libro che cerca di esprimere le ricerche, anche più radicali, del Coltrane che esplora tutte le massime possibilità del jazz modale, inserendo elementi di altre realtà lontane, come scale musicali indiane e tecniche di respirazione e lavoro sullo strumento. Il Coltrane che supera le barriere dello spartito e del quattro quarti, degli accordi armonici, di tutta una serie di strutture prestabilite, verso una “liberazione” del suono, verso una sua autonomia. Per rendere tutto ciò, ho lavorato sulla pagina, sulla doppia pagina, sul voltare pagina, su una costruzione a incastri di flashback e episodi che ritornano e si incastrano tra loro dando una omogeneità al tutto, ma essendo completamente autonome l’una rispetto all’altra e che avessero un “ritmo” proprio, come uno schiocco di dita quando ascoltiamo l’Ellington di Take the A train. Ho smembrato le possibilità del montaggio. Almeno in potenza il tentativo era questo.
Quella di evocare situazioni, sensazioni o pensieri sembra una scelta stilistica che ritorna in diversi tuoi lavori. Penso per esempio a Chernobyl, dove l’approccio appare lo stesso. Lo vedo come uno stile più vicino alla poesia che alla narrativa o al cinema. Cosa ne pensi?
Quando scrivo non penso di stare per scrivere un testo poetico. Ogni lettura è poi legittima. Credo nella forza della sceneggiatura, nella determinazione del voler arrivare ad un punto, nel dire qualcosa. Ma questo non toglie il fatto che certe scelte narrative possano risultare evocative. Non vedo come le due cose possano stridere. Anzi, è proprio quello il punto di forza. Le storie deboli si riconoscono subito e si dimenticano facilmente. Credo nel lettore. E lui completa il mio lavoro.
Il tuo stile così essenziale, asciutto riesce di certo a evitare di essere didascalico o di cadere nel sentimentale. È poetico, ma non sentimentale. Un risultato certo affascinante. Penso tuttavia che in alcuni momenti sarebbe stato più efficace soffermarsi di più, non scivolare così velocemente ad un episodio successivo. A volte ho avuto la sensazione dell’occasione persa. Penso, per esempio, alla morte di Eric Dolphy: sarebbe stato interessante esplorare maggiormente l’impatto di questa tragedia in Coltrane e nella comunità jazzistica. Cosa ne pensi?
Pensa che in un’altra recente intervista si sosteneva che il mio stile forse è troppo didascalico. E che avevo forse posto poca attenzione su altri aspetti della vita e del contesto in cui Coltrane si muoveva. Ma chiunque conosca un minimo Coltrane dirà che manca questo o quello. Poi a te piace pensare che io sia poetico: ripeto che alla base del mio lavoro non ce n’è assolutamente l’intenzione. Anzi sono molto concreto, materiale, pragmatico. Ma questo non esclude l’essere evocativi.
Avevi un limite di pagine predefinito dall’editore oppure è stata una tua scelta autonoma? In quanto tempo hai completato Coltrane? Come hai impostato l’elaborazione della storia e la sua realizzazione?
L’editore mi ha lasciato carta bianca. In ogni suo aspetto. Il lavoro è iniziato sul finire del 2006. Conoscevo già molti aspetti della vita e dell’opera di Coltrane. Ho inziato ad ascoltare in maniera massiccia Coltrane e ogni momento della sua vita che mi accingevo a disegnare era accompagnato da una colonna sonora non solo di suoi dischi relativi al periodo, ma anche da tutta una serie di dischi altri, Ellington, Gillespie, Shepp, Sonny Stitt, Sonny Rollins, Mingus. La parte più complessa è stata sicuramente la documentazione fotografica. Poi ho lavorato per coppie di pagina, per 4 capitoli, mantenendo un’organicità del totale. Il che non è né facile né scontato, visto che si tratta comunque di denso numero di pagine.
Il fumetto è un mezzo di comunicazione “muto”. In Coltrane devi rievocare la concitazione e l’intensità delle session di jazz. La tua scelta è stata spesso quella del silenzio, della staticità, senza movimento e onomatopee. Mi ha colpito molto la tua decisione di rappresentare alcuni di quei momenti come una pausa, un momento sospeso. Penso alle session di A Love Supreme, di My Favorite Things o di Ascension. Mi sembra un approccio molto vicino alla fotografia. L’iconografia del jazz si è arricchita attraverso l’efficacia di molte fotografie. Sono state per te fonte di ispirazione? Qualche fotografo in particolare?
William Claxton su tutti. E molti altri. In realtà in alcune session o live ho rappresentato la musica con delle semplicissime crome e semicrome; credo sia un buon metodo di rappresentazione del suono su carta. Almeno a me piace.
Allo stesso tempo, questi momenti sospesi hanno una grande forza evocativa, quasi rituale. Esagero?
No, non sbagli… E’ una cosa che ho cercato molto. Quasi un omaggio proprio a certa iconografia jazz, a certi momenti, impressioni, certe situazioni magistralmente immortalate. Pensiamo alla copertina di A Love Supreme, ormai entrata di diritto in un certo immaginario, la cui origine è quasi casuale. O a certe pose di Davis, guardando le quali sembra di riuscire a intuirne certi suoi lati caratteriali o stati d’animo.
Credo tu abbia rappresentato uno straordinario Miles Davis. Appare poche volte, ma è decisamente inquietante e funzionale. Sembra uno spirito ancestrale capace di toccare Coltrane nei modi giusti. Per certi versi è così che ha attraversato la storia del jazz. È questo il modo in cui lo vedi?
Davis è un grandissimo compositore, esecutore ineguagliabile, trombettista dal timbro personalissimo. Lui, prima di altri, ha dato molto peso ai silenzi, agli stacchi tra un assolo e l’altro: ascoltiamo Kind of Blue. Oltre a tutto ciò era un talent scout acuto e determinato. Dopo il quintetto con Evans, Adderley, Coltrane, Chambres e Cobb ci mise un po’ di anni prima di tornare in piena creatività, facendosi affiancare da musicisti del calibro di Hancock, Shorter, Zawinul e altri. Ho cercato di amplificare questo suo lato ambiguo, duplice. Con Coltrane aveva molti punti caratteriali di distanza, il che creava problemi nella loro convivenza artistica. Ma allo stesso tempo Davis pretendeva qualcosa da Coltrane, lo ha spinto a osare, ha supportato la sua voglia crescente di mettersi in gioco. E in questo non aveva di certo sbagliato.
La parabola artistica e biografica di Coltrane cosa pensi possa raccontare a questa contemporaneità? C’è un messaggio, un senso in questa tua esplorazione, oltre alla rievocazione di episodi e situazione che hanno cambiato la musica afroamericana degli ultimi cinquanta anni?
Parlare di Coltrane oggi significa parlare di un passaggio nuovo, di un qualcosa che può cambiare o che ne sente l’esigenza. Per esempio Mingus intendeva la musica afroamericana fatta da neri per i neri. Con Coltrane si sciolgono dei nodi culturali che vanno oltre la dinamica del mercato musicista nero/mercato bianco (si legga Frank Kofsky in proposito). Si inizia a intendere la musica afromericana per tutti, di tutti.
Come pensi di “portare in giro” Coltrane? Hai mente di avvicinarlo al mondo del jazz attraverso performance live?
Ho fatto un piccolo esperimento un paio di settimane fa, in una galleria a Bologna. Disegno su grande formato e sax dal vivo. Sembrava una buona soluzione che potesse ovviare alla canonica presentazione in libreria. Per questo ringrazio Paper Resistance che mi ha stuzzicato in questa cosa, ancora tutta da perfezionare. Speriamo di riuscire a replicare da qualche altra parte!
A love supreme. Raccontare John Coltrane
Incontro con paolo Parisi e Vittorio Giacopini
Librerie.Coop Officine MInganti – venerdì 6 marzo – H 17.30