Per non parlare di Blutch: incontro con il controverso autore della mostra “Le Voyeur”
Le opere di Blutch giocano con il desiderio, con la sottile provocazione che nasce dallo sguardo. Immagini rubate attraverso uno spiraglio lasciato aperto, una serratura, catturate dall’occhio indiscreto di un pittore o di una cinepresa. Così Blutch apre al lettore un varco su una dimensione intima e segreta. L’autore riesce a cogliere il mistero e la bellezza di chi si muove inconsapevole di essere osservato.
Matteo Stefanelli – Blutch è un autore che viene inquadrato in una generazione che è emersa negli anni ’90 di autori di fumetto consacrata nell’ultimo decennio. Blutch è ai confini tra fumetto indipendente e fumetto tradizionale. Di quel gruppo di autori Blutch è il meno tradotto in Italia. Tre lavori sono stati pubblicati: “Il piccolo Christian” per Lizard, “Blotch” per Q Press una serie umoristica e in questi giorni per Coconino “Per non parlare di cinema”. Volevo cominciare da un piccolissimo dettaglio Blutch si chiama in realtà Christian e questo soprannome mi sembra interessante. Vorrei che tu lo spiegassi perché a molto a che fare con il tuo lavoro, non è un nome che viene da pura assonanza musicale.
Blutch– E’ un soprannome che viene da un personaggio dei fumetti, un eroe molto famoso in Belgio. Quando avevo 12-13 anni i miei compagni di classe decisero che io gli assomigliavo fisicamente ma anche moralmente e alla fine anche i miei genitori iniziarono a chiamarmi così, tanto che anche adesso quando sento chiamare Christian per la strada non mi volto. Dicevano che assomigliavo a “Blutch” perché ero sempre di cattivo umore, ombroso, tracotante, e avevo delle grandi guance.
Matteo Stefanelli– Insomma un destino segnato da un fumetto popolare, volevo chiedergli di parlarci un po’ del tuo percorso artistico, magari partendo dal 1988 anno in cui inizia la tua collaborazione per la rivista “Fluide Glacial”
Blutch– Sono 25 anni che vengo pagato per disegnare, anche se in realtà sono 40 anni che disegno. Da studente negli anni ’80 ho preso parte a un concorso di Fluide Glacial che ho vinto con una parodia di Tin Tin. Il primo premio era la pubblicazione nella rivista della storia con un compenso di 5000 franchi cioè 180 euro. Però a vent’anni era una fortuna. È molto strano per me ripercorrere la mia storia davanti a persone che non conosco perché nella mia testa ho sempre 20 anni, e anche quando lavoro ogni libro che faccio per me è sempre come il primo libro, non mi sento a mio agio a “storicizzare” la mia vita. Ho approfittato di questa opportunità di lavorare per il giornale soprattutto perché si trattava di un mensile, in quel periodo invece i settimanali tendevano a sparire. È stato un ottimo mezzo per cominciare a scrivere storie brevi e imparare il mestiere. Ho lavorato con loro fino al 2000 circa 12 anni. In tutti questi anni però ho pubblicato anche a destra e a manca, non sono molto fedele come autore.
Matteo Stefanelli– Quello che hai pubblicato in questo periodo era nello stile tipico delle commedie, delle avventure comiche spesso surreali e satiriche. È qualcosa che poi è rimasto e fa parte dei tuoi toni? Pensi che sia qualcosa che ti appartiene ancora oggi?
Blutch– Io mi considero anche adesso un disegnatore satirico, umoristico, ma in realtà non mi sono mai sentito a mio agio a Fluide Glacial. Lì il lavoro si basava tutto sulla gag, sul sense of humor appuntito, tutto doveva fare ridere. In realtà mi sarebbe piaciuto lavorare per altri editori come Metal Hurlant o A suivre, perché il mio gusto di lettore si rivolgeva a quelle riviste. Mi trovai a Fluide Glacial per caso perché avevo vinto il concorso. Quando sono entrato in questa rivista volevo restare con loro perché mi dava stabilità economica ma tentavo di trovare una mia via personale. Una volta un disegnatore molto famoso mi disse devi trovare il tuo personaggio e fare tante storie su di lui, continuare, battere sullo stesso chiodo, se fai così arriverai. Io gli risposi che non sapevo se ce l’avrei fatta ad “arrivare” con questo metodo, non era quello che mi interessava. Non ero fatto così a vent’anni come adesso, cioè non sono il tipo che si fissa su un personaggio ogni libro per me è un nuovo inizio. Dopo qualche anno la situazione si è fatta tesa ho cominciato a lavorare per A suivre riadattando il personaggio di Petronio che potete vedere oggi anche in “Peplum” che è una storia che si colloca nel mito, è epica, non divertente, né satirica.
Matteo Stefanelli – In Fluide Glacial hai lavorato per una testata che imponeva un certo tipo di umorismo di gag in cui non ti sentivi a tuo agio, a riguardare le storie umoristiche di Blocht si vede però un approccio umoristico non solo gag. Le pessime gesta del tronfio personaggio che è Blotch fanno ridere ma allo stesso tempo ci fanno anche un po’ vergognare, sei d’accordo?
Blutch– Non è un caso che Blotch sia proprio l’ultima collaborazione con Fluide Glacial perché è un personaggio che riassume perfettamente la mia relazione con la testata, ne è anche un autoritratto in parte. Questi sono ricordi che io tento di dimenticare per varie ragioni anche perché guardo avanti e voglio restare giovane. Nel periodo in cui ho realizzato Blotch ero influenzato dal fumetto spagnolo come “Los profesionales” di Carlos Giménez. Mi ricordo che avevo molta voglia di parlare della Francia, perché nel mio paese i fumetti parlano spesso di americani. Si utilizzavano eroi americani o western o storie sull’FBI. Per me in un lavoro letterario si deve raccontare il proprio mondo personale è così che si riesce a diventare universali, Don Chisciotte è universale proprio perché è tipicamente spagnolo, sono 20 anni che mi forzo per parlare della Francia.
Matteo Stefanelli – Un’altra data che mi sembra significativa è il 1995-96 quando inizi a collaborare con un altro editore indipendente francese con cui inizia un progetto molto diverso: “Mitchum”. In che senso è diverso da quello che facevi prima, come hai vissuto quel forte cambiamento all’opposto della linea editoriale stretta che avevi prima e il raggiungimento di una libertà totale di contenuto, di forma del disegno e di composizione della pagina.
Blutch– La cosa più importante per avere qualcosa da dire è viaggiare, andare in giro, essere curiosi. Non vorrei sembrare cattivo ma gli autori di Fluide Glacial erano fissi lì dentro senza uscire e stavano benissimo, guardavano a mala pena fuori dalla finestra. L’editore Cornélius aveva pubblicato autori di tutt’altro segno, lavori più autobiografici, poi hanno deciso di rilanciarsi su una collana di comics colti, io ero appena tornato dagli USA e dal Canada dove mi ero confrontato con disegnatori come Chester Brown e avevo molta voglia di esplorare questa nuova via. Il primo numero di Mitchum è stato disegnato quando ero a NY, sono stato davvero segnato dagli autori americani. Ero affascinato dal loro approccio meno letterario più plastico, erano meno prigionieri della serialità e della serie. Mi sento un disegnatore del paradosso perché lavoro nella tradizione ma allo stesso tempo non mi sento a mio agio nella tradizione, non è un calcolo, è questione di temperamento. In questo momento parlando con voi mi rendo conto che per fare una frase devo costruire qualcosa. Chi racconta la propria vita, mente perché costruire è una forma di menzogna. Non capisco l’autobiografia nel fumetto perché in realtà io cerco di trasporre direttamente la vita. Non mi piace la tendenza a romanzare la propria esistenza. Nel momento in cui con la parola o i disegni si cerca di ricreare la vita si crea un fantasma. Per cui mi chiedo se è vero quello che vi sto raccontando, in fondo la vita reale è sempre più problematica e contraddittoria.
Matteo Stefanelli- Entrando nel merito, il tema del mentire è così importante, ha un ruolo chiave nei tuoi lavori. Mi sembra che tutto parta proprio da Mitchum che non è un racconto, da lì hai iniziato a insistere sul realizzare fumetti anti romanzeschi, è il disegno la guida. Nella mostra al Museo della Musica di Bologna la scelta delle tavole è molto attenta a indicare questo aspetto. C’è una sequenza di Mitchum sul balletto che è un esempio perfetto. Avviene come un cambiamento da modelli narrativi a modelli in cui la narrazione si perde subito.
Blutch – In realtà io ho sempre l’impressione di raccontare una storia col mio punto di vista. Quando ho fatto Mitchum abitavo a NY con un artista, per questo il fumetto non è un diario come gli altri, è un diario emotivo, emozionale. È una formula ottima quella del diario che posso usare in ogni momento. Questo approccio emotivo al lavoro è anti intellettuale ma paradossalmente sembra astratto e quindi il rapporto con Mitchum è diretto, infantile come quando si gioca. Ieri sono stato alla mostra e ho visto le mie tavole, adesso sono molto distaccato, faccio fatica a pensare che le ho fatte io e mi chiedo cosa volevo dire, si lega tutto fortemente a quello che facevo in quel periodo. Per me è come un album di famiglia che mi riporta al momento in cui è stato creato. Il mio lavoro artistico è la mia vita privata, è strano per me pensare da un punto di vista freddo e distaccato. Mi chiedo come potrebbe interessare a qualcun altro la mia vita, perché esporla?
Matteo Stefanelli– Sono concetti difficili da esprimere a parole. Tu hai detto che non capisci e non frequenti l’autobiografia, io credo in senso cronachistico, cioè a episodi. Forse il flusso di coscienza non è il tuo modello, è più un flusso di coscienza della mano, del disegno più che degli avvenimenti o dei fatti, eviti la cronaca degli avvenimenti.
Blutch– Se dicendo “mani” pensi agli sguardi sono d’accordo, sicuramente per semplificare le mie idee ho avuto un approccio molto più plastico, rappresentavo luoghi e situazioni in cui mi trovavo realmente. Per Mitchum questi luoghi diventavano dei motivi stilistici, cose che rappresentavo. Un appartamento, un gioco, un vestito, una natura morta.
Matteo Stefanelli– Faccio un salto in avanti, il tuo libro più recente (Per non parlare di cinema, Coconino Press)è dedicato al cinema. E’ molto diverso da Mitchum, sembra un ritorno verso qualche modello classico nella costruzione della pagina, nell’uso della vignetta. Ma c’è qualcosa che continua ad andare nella direzione della non narrazione, non romanzo, più che una storia sembra un discorso, un pensiero sul cinema.
Blutch– Sì, infatti un libro come questo non sarebbe mai potuto esistere senza Mitchum. Per me il cinema è comunque una storia ed è l’oggetto del mio libro, ma non è sviluppato come una storia, è una riflessione illustrata, riguarda il modo con cui si può riflettere sulle immagini. Ogni immagine mi porta a quella successiva. Sono stato molto colpito all’inizio del lavora dalla deregolamentazione, confusione e violenza che si trovano nei libri di Romain Gary. La sua descrizione della follia pura, epilettica e paranoica mi ha molto colpito e mi ha segnato, io cercavo proprio questo tipo di intensità letteraria. Nel mio ultimo lavoro ho cercato di ricreare questo gorgo letterario, anche se in realtà il fumetto è una cosa completamente diversa. All’inizio Romain Gary mi ha interessato moltissimo perché era il suo modo per rappresentare se stesso. Una sorta di autobiografia al contrario, costruire una storia di finzione partendo da se stessi, metterci dentro tutto, dire tutto senza mai dire cos’è successo. Flaubert diceva “essere presenti dappertutto, ma visibili da nessuna parte”. La credibilità della menzogna, insomma. Flaubert non disegnava ma il fumetto è un lavoro letterario. Per me non ha nulla a che vedere con il cinema. Secondo me il fumetto non ha niente a che vedere col cinema o col teatro dove è centrale il dialogo.
Matteo Stefanelli– L’esempio del teatro mi sembra interessante, dici che il fumetto è il contrario del cinema, mi sembra paradossale. Tu fai letteratura anti letteraria, ho la sensazione che nel tuo ultimo libro ci sia molto presente un filtro: il corpo, in particolare il corpo degli attori e delle attrici. Penso che usi il corpo come strumento per costruire i tuoi lavori.
Blutch– E’ un’affermazione un po’ da “arte contemporanea” dire che uso il corpo, io direi che uso la carne. Una definizione che si può trovare sul lavoro dell’attore è la carne non il corpo. Spero di non sembrare pretenzioso ma io vedo la carne come simbolo, la carne che soffre che invecchia, il viso che crolla. Quando disegnavo Peplum era già evidente la decadenza, i personaggi erano su un tapis roulant che ineluttabilmente andava vanti e che porterà me come tutti voi nello stesso luogo. Tutte le azioni umane sono costruite per farci dimenticare che moriremo. Credo che il cinema nel mio lavoro sia un accessorio non è quello il punto, il centro è questa inquietudine profonda, per questo non mi riconosco nel corpo, non mi sento d’accordo, è troppo bon ton come parla troppo elevata.
Matteo Stefanelli – Per restare su questo tema del “filtro” dell’attore mi sembra interessante anche un altro aspetto che ti accompagna da tantissimo cioè la menzogna. Ovvero, tutti questi corpi che tu racconti giocano un ruolo, vivere, essere un attore è mentire tutta la vita sulla propria identità. C’è una figura ricorrente nei tuoi lavori è l’artista. Blotch recita il ruolo dell’artista, forse l’artista è il più menzognero degli attori? Ecco un’altra domanda che fa molto arte contemporanea.
Blutch– Per tornare a prima Blotch ci dice che il fisico parla, essere un artista che rappresenta la natura o il corpo vuol dire disegnare un idea un pensiero. Per questo sono interessato a rappresentare il movimento perché è già di per se un’idea. È vero che l’artista è sempre nei miei lavori, è un personaggi maschile con diverse età che rappresenta me nel libro sul cinema. L’artista per me è satirico, patetico e miserabile. L’ho sempre rappresentato come un ometto insicuro e pieno di dubbi ma anche arrogante. In questo senso il personaggio che ci parla nel libro sul cinema non è distante da Blotch. Ci sono molte altre sagome in molti miei lavori, artisti, pittori che riconducono tutti allo stesso personaggio. D’altro canto ognuno di noi vuole dare di se una certa immagine al mondo. Come si fa a non mentire se fin da piccoli ci dicono che dobbiamo dare la migliore immagine di noi stessi, dobbiamo sembrare intelligenti. Questa può sembrare una boutade ma quando rispondo a un’intervista mi viene richiesto un certo contegno e un pensiero socialmente accettabile. Tutti i giorni ci viene chiesto di dare un’immagine più alta di quello che siamo realmente. Siamo tenuti a mentire, lo vediamo con i politici. Quando lavoro mi sento molto fortunato perché nel mio piccolo studio non devo nulla alla società ed è una fortuna incredibile. Posso fare tutto quello che mi passa per la testa, quindi sono libero, questa cosa mi da le vertigini perché posso fare davvero qualsiasi cosa.
Matteo Stefanelli- Un dettaglio tecnico, la scelta tra bianco e nero e colore. La maggior parte dei tuoi lavori sono in bianco e nero, volevo sapere cosa stai facendo adesso se coinvolge il colore e perché hai usato il colore in alcuni casi e in altri no.
Blutch– In generale per me il fumetto per me è un lavoro orizzontale in bianco e nero, l’illustrazione si sviluppa in verticale e uso il colore. Questo perché per me il fumetto è una forma di scrittura, faccio linee da sinistra a destra. L’illustrazione è una cosa unica. È un approccio completamente diverso dal punto di vista fisico, mi piace molto usare il colore ma tornare al fumetto mi rilassa. Faccio disegni molto aneddotici, è un altro modo di raccontare. Potrei raccontare un immagine in tutti e due i modi. L’illustrazione è come una vignetta senza la frase. Anche qui in maniera apparente non si vede ma è fortissima l’influenza dei disegnatori americani e il loro approccio alla vignetta, loro tendono a raccontare tramite il disegno, un modo diverso di narrare tramite immagini. Non si possono commentare i disegni è come se volessi spiegare una barzelletta, si perde l’effetto comico. Il bello dell’illustrazione è che è misteriosa, non si può commentare perderebbe troppo.
Domande dal pubblico – Come è nato “La Beauté” (Futuropolis, 2008)
Blutch – La Beauté è nato per caso, perché non riuscivo a fare il fumetto che volevo fare e ho fatto disegni. Nel 2007 ho realizzato 90 tavole con solo due matite il blu e il rosso. E’ un ricordo un po’ nebbioso perchè sicuramente è stato un momento in cui avevo un rapporto problematico col fumetto. Volevo sbarazzarmi della parola, della nuvoletta, di tutta la sovrastruttura. Ho sempre questo problema col fumetto, cioè ho il desiderio della voglia di sbarazzarmi del know how perchè è un modo molto lento e laborioso per esprimersi. Questo libro è nato perché volevo andare dritto al cuore dell’idea. Quando costruite un fumetto classico ci sono delle finestre, vignette, in alcuni momenti le sentivo di transizione, inutili, ero obbligato a riempirle a rappresentare qualcosa per far svolgere la narrazione. La Beauté è una forma di fumetto senza vignette inutili, ogni immagine è una scena fondamentale. Sono “passato col rosso”, è questo che rappresenta per me Le Beautè.
Domande del pubblico – Che consiglio darebbe lei su come riuscire a esprimere se stessi diventando però universali.
Blutch – I consigli sono fatti per non essere seguiti. A 20 anni ho ricevuto tanti consigli, ero arrogante perché ero un artista. La cosa fondamentale è essere tenaci, tu devi essere come il cane che azzanna e non lascia mai la carne. Mi sembra di parlare come mio padre in questo momento però diciamo che bisogna svegliarsi presto e lavorare tanto.
Domande del pubblico– Ricollegandosi al suo discorso sul confronto con l’esterno, con la società. Secondo me si crea una forma di menzogna anche solo parlando di se stessi. Lei ha detto che nel suo studio si sente libero, ma anche quando si è soli e non si teme il giudizio degli altri a me capita di avere i miei occhi che guardano, io spettatore di me stesso e così arrivo a fingere. Ho bisogno di molte energie per creare un “blocco della ragione”, per dire che non mi sto mentendo. Le capita? Come si fa a sentirsi liberi anche quando si è a soli?
Blutch- Una prima parte del lavoro è dimenticare il mondo e se stessi, dopo disegnare. Bisogna ascoltare la voce interiore o ispirazione, non mentire a se stessi. Molti dicono che si deve usare l’istinto. Non so se si può generalizzare ma se c’è qualcosa che non va io lo sento, capisco che non sta funzionando. Io spero di non dire cose che non funzionano, non sono un maestro neanche per me stesso. Neanche io a volte riesco a lavorare come vorrei. Puoi dimenticarti di tutti ma dimenticarti di te stesso è la cosa più difficile di tutte.
Domande del pubblico – Perché per il fumetto “Il piccolo Christian” ha scelto proprio il suo nome, è autobiografico?
Blutch– L’ho scelto perché i nomi sono evocativi, la parola in se già evoca qualcos’altro, dalla parola viene la storia. A me basta pronunciare un nome e c’è già una storia che inizia. Se avessi scelto un altro nome non sarei stato in grado di farlo. Da un nome partono le evocazioni, i ricordi e questo già crea una storia. Per cominciare a scrivere c’è bisogno di nomi veri per trovare l’ispirazione.
Le Petit Christian non è un’autobiografia, non ha l’aura nostalgica, non è nel passato ma è collocato nel presente, uso il tempo presente. Questo già cambia tutto. Spesso si fanno dei libri per mettere in ordine le cose, è un modo per disfare le valige e rimettere in ordine ciò che ci ha preceduto. È una sorta di pozzo al quale si può attingere per scrivere delle storie umoristiche. Io vengo da una zona particolare di confine tra Germania e Francia. Vivo in una città che in 150 anni è passata dalla Francia alla Germania un sacco di volte, i miei nonni non parlavano francese, i miei zii erano nella gioventù hitleriana, forse dovrei parlare di questo nel prossimo fumetto.
Blutch “Le Voyeur”
Museo Internazionale e Biblioteca della musica, Bologna
Dal 2 marzo all’8 aprile, 2012
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