Nei boschi di Mumin
Molti anni fa ho passato alcuni mesi in Finlandia per studio, con una borsa ministeriale (era il corrispondente degli Erasmus di oggi). Sono tornato affascinato da quello strano paese, dove la gente è silenziosa e poco espansiva, ma poi ti rimane amica e ti dimostra affetto (a modo suo) per sempre; dove c’è sì qualche città interessante (con grandi architetti moderni) ma soprattutto un universo selvaggio di boschi e laghi a perdita d’occhio, sino all’estremo nord. I finlandesi stessi, tra una bevuta e l’altra, mi dicevano delle loro grandi difficoltà nei rapporti umani, ma anche dell’intensità del rapporto con la natura. Questo si capiva anche da come sono fatte le loro città. Io abitavo a Helsinki, un po’ in periferia, e dopo la città continuava ancora a lungo. Eppure il mio bus, quello che mi portava all’università, impiegava ben quaranta minuti di tragitto piuttosto veloce, di cui circa la metà in pieno bosco. E il bosco partiva anche davanti a casa mia – molto comodo per lo sci da fondo d’inverno e per le passeggiate d’estate. Non era parco cittadino, ma proprio bosco, selvaggio e in parte misterioso; anche fitto al di fuori dei sentieri. Se poi dalla città ci si allontanava davvero, si aveva a volte l’impressione di essere in un paese selvaggio, appena appena attraversato dal progresso della civiltà.
In questa natura così avvolgente, potevano ben vivere anche dei piccoli troll, e un intero mondo fantastico di piccole creature affettuose. Mumin l’avevo conosciuto già diversi anni prima, sulle pagine di Linus (dove si chiamava Moomin, perché ci arrivava dalla fortunata traduzione britannica), e mi ero letto e riletto più volte tutto quello che avevo trovato. Mi affascinava la sua dimensione dolcemente demenziale, fatta di personaggi tutto sommato incapaci di capire il mondo, però ugualmente positivi, capaci di vedere il meraviglioso in tutto quello che li circondava, e destinati, proprio per questo, e come in ogni favola degna di questo nome, a cadere sempre in piedi. E mi colpivano soprattutto gli affetti, quella cosa per cui se anche c’era qualcuno dispettoso e rompiscatole, si cercava sempre di prenderlo in positivo – e tutto, bene o male che fosse, era comunque un’avventura.
Anche il disegno di Tove e Lars Jansson mi piaceva molto, con le sue paradossali rotondità, e questa spartana eleganza fiorita, appena appena annerita qua e là solo da qualche personaggio di colore scuro; quelle vignette un po’ vuote di segni, e quei ghirigori semplicissimi sul bianco…
Mumin mi dava l’impressione che il mondo attorno ai protagonisti fosse assai poco popolato, una distesa semivuota in cui gli incontri con altri personaggi erano sempre eventi. Non che fossero rari, questi incontri, nell’economia delle storie – ma si capiva, insomma, che la vita continuava anche fuori dal racconto, con quella solitudine e quella dolce malinconia che la fantasia (spesso sfrenata) doveva combattere.
Facevo fatica, in Finlandia, a riconoscere nelle persone lo spirito di Mumin. Vedevo invece bene il silenzio, il mondo meraviglioso e sconosciuto attorno, la natura piena di presenze. Frequentavo all’epoca un gruppo di giovani cineasti, tramite un’amica – ed è stata lei, molti anni dopo, a farmi sapere che tra loro c’erano anche Aki e Mika Kaurismäki. Guarda caso, proprio attraverso i film dei Kaurismäki avevo nel frattempo capito il nesso tra la gente di Finlandia e i personaggi di Mumin: guarda caso, c’è nei loro film e nei loro personaggi lo stesso spirito dolcemente ironico, la stessa visione fantastica delle cose. Solo che nei Kaurismäki la malinconia prende il sopravvento, e la favola diventa amara.
In Tove e Lars Jansson ci si ferma prima. La favola rimane favola. La meraviglia non viene uccisa dall’alcol o dalle tante miserie del quotidiano.
La mostra
Tove Jansson – Mumin e i suoi amici
sarà aperta dal 4 al 31 Marzo
archivio.bilbolbul.net/it/mumin
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