I complotti notturni di David B.
Estratto dall’intervista a David B. realizzata da Emilio Varrà, e pubblicata sul numero 117 de “Lo straniero” (marzo 2010).
Direi di partire proprio dall’inizio, ovvero dal tuo primo libro per l’Association, Le Cheval Blême. È una raccolta di sogni trasposta a fumetti, esperienza che replicherai poi con Complotti notturni. Ma inserzioni di sogni sono presenti in tanti altri tuoi lavori. Qual è il rapporto tra materiale onirico e materiale narrativo nel tuo processo creativo? E credi ci sia un rapporto specifico tra sogno e linguaggio del fumetto? Penso, ad esempio, alla sensazione straniante di alcune sequenze in cui le vignette sembrano materializzarsi dal vuoto della pagina.
Direi di partire proprio dall’inizio, ovvero dal tuo primo libro per l’Association, Le Cheval Blême. È una raccolta di sogni trasposta a fumetti, esperienza che replicherai poi con Complotti notturni. Ma inserzioni di sogni sono presenti in tanti altri tuoi lavori. Qual è il rapporto tra materiale onirico e materiale narrativo nel tuo processo creativo? E credi ci sia un rapporto specifico tra sogno e linguaggio del fumetto? Penso, ad esempio, alla sensazione straniante di alcune sequenze in cui le vignette sembrano materializzarsi dal vuoto della pagina.
Non so se ci sia un rapporto tra il linguaggio onirico e quello del fumetto, ma io ho provato a crearne uno. Nei miei sogni vedo delle immagini e delle sequenze che mi stupiscono per la loro carica fantastica al punto che mi vien voglia di riportarle sulla carta. Sono figure che non sarei mai in grado di immaginare da sveglio. La mia parte incosciente mi lancia una “sfida grafica” appassionante, che per me rappresenta un ritorno alle origini, alla genesi dell’atto di raccontare delle storie che nascono da una materia grezza, legata a un immaginario che appartiene alla notte e che svanisce al momento del risveglio. C’è qualcosa di magico, un momento in cui il disegno può cogliere qualcosa di questa magia e diventare a sua volta un gesto magico.
La modalità con cui racconti le tue storie è sempre poco lineare. Non solo i sogni, incongrui per eccellenza, ma anche le tue storie autobiografiche o quelle di pura finzione che riempi di flashbacks, intrecci paralleli, digressioni saggistiche, exucursus storici. Mi sembra anche che questa tendenza sia accentuata nelle ultime opere, da Babel al recente Journal d’Italie, quasi sentissi l’esigenza di forme narrative sempre più libere. Quale esito cerchi con questo modo di raccontare?
Utilizzo volentieri questa forma narrativa per i miei lavori, che hanno una base autobiografica ma che guardano oltre, spingendosi fin dove il racconto di sé apre le porte sul mondo. Tutte queste storie si susseguono e, man mano che le porte si spalancano, una storia ne trascina un’altra ed io, indossando le maschere di diversi narratori, posso svolgere la matassa delle storie.
La non linearità della narrazione non dà mai però la sensazione di un abbandono del piacere del racconto. Una delle prime sensazioni che emergono alla lettura dei tuoi lavori è proprio il gusto di narrare, e l’immersione nel “gran mare delle storie” che trova massima espressione nell’universo delle leggende e del meraviglioso, nel feuilleton, ma anche nella Storia. Si sente sempre un “effetto Sherazad”, come se il raccontare fosse di per sé salvifico e vitale, al di là di quello che si racconta. Credi in un potere in qualche modo salvifico della narrazione?
Sherazad e le Mille e una notte sono l’archetipo della figura che salva la propria vita facendo prigioniero il suo carnefice, trasformandolo in ascoltatore. E’ la cosa più bella del mondo. Ne esiste un esempio più concreto ne I racconti di Kolyma, dove Varlam Shalamov racconta la quotidianità dei prigionieri dei Gulag come una sequenza di “notti”. Tra questi prigionieri intellettuali o istruiti, alcuni diventano dei “romanzieri”, che nel gergo della prigionia significa essere sotto la protezione di un prigioniero di diritto comune con il compito di distrarlo raccontandogli dei “romanzi”, inventando delle storie per il “padrone” o raccontando, a lui e alla sua banda, si potrebbe dire alla sua corte, dei romanzi di Victor Hugo, di Tolstoï, di Jules Verne o di altri ricamandoci sopra. E in questa situazione anche un bandito, il potenziale boia di un prigioniero, che normalmente potrebbe sottrargli gli abiti e la razione di pane, ascolterà quest’uomo e gli offrirà cibo e sigarette.
Sto adattando una fiaba delle Mille e una notte costruita su una “mise en abîme”, in cui un uomo racconta una storia poi ascolta quella di un secondo individuo o darà la parola a un terzo. E’ un bel modo di mostrare come le nostre vite siano legate le une alle altre. Credo fermamente che la letteratura, in tutte le sue forme, ci nutra e ci salvi.
Raccontare, disegnare, camminare: tutti modi per “dare forma”, per costruire traiettorie, per orientarsi nel disordine del mondo. Questa sfida contro la natura informe della realtà è davvero un nodo centrale della tua poetica?
Esattamente. Le storie sono come dei sentieri, disegnano una geografia che struttura il mondo, che ci permette di orientarci. Come sai, a causa della malattia di mio fratello, ho ereditato un mondo in disordine e il disegno e il fumetto, che sono linguaggi in cui la struttura è un elemento fondamentale, mi permettono di ritrovarmi in questo caos.