Paolo Parisi – Il filtro del realismo
La composizione essenziale delle tavole di Paolo Parisi, il suo tratto sintetico che punta senza indugi alla riproduzione dell’essenziale, possono costituire un elemento di inganno per chi si accosta per la prima volta alla sua opera.
Nel nostro Paese ci siamo ridotti per troppo tempo a contemplare un’infinita galassia di cartoonist “alternativi” chiusi nel loro tinello a rimuginare sulle presunte ansie del quotidiano, incapaci di affrontare la vera sfida proveniente dalla realtà sociale e politica nella quale, volenti o nolenti, sono immersi: quella di svelare -riproducendole, narrandole, sezionandole- le radici, le crepe, la complessità e le storture dell’immaginario italiano (ma non solo) contemporaneo.
L’ostentata ricerca del minimalismo; del racconto tutto dialoghi o, di contro, impostato solo su pretenziosi monologhi; certe derive espressioniste che in realtà spesso servono soltanto a nascondere gravi imperizie tecniche: ebbene, le opere di Parisi corrono il rischio, a tutta prima -se vi si getta un’occhiata distratta e superficiale- di essere immediatamente accomunate a una tale melassa pseudo-artistica.
Ma si tratta, per l’appunto, solamente di apparenza. Chi, leggendo una delle sue prime opere autoprodotte, Ratti -di fatto, un gustoso divertissement senza particolari pretese- aveva temuto di trovarsi davanti all’ennesimo autore tentato dallo sterile scimmiottamento di Pasolini e dei suoi racconti di emarginazione suburbana, si era infatti dovuto immediatamente ricredere. Già Fame -un dramma metropolitano che sfocia nella tragica ineluttabilità del genere noir– aveva messo in luce l’esigenza di Parisi di gettare l’occhio sui fatti reali senza mediazioni di sorta, agganciandosi a una visione naturalistica che fa della distanza e della fredda essenzialità delle illustrazioni il suo punto di forza. Ma era stato Gli ultimi giorni del Pitbull -storia di un pugile romano che decide di chiudere sul ring la sua disastrosa parabola esistenziale- a rendere chiare le intenzioni di un autore che non aveva nessuna voglia di condensare sotto forma di fumetti le sue paturnie private, quanto piuttosto di raccontare storie universali capaci di attrarre l’attenzione di un pubblico non costituito da una stretta cerchia di appassionati.
Ed eccoci arrivati al punto: a Parisi interessano i fatti concreti e il suo obiettivo è quello di arrivare al maggior numero di lettori attraverso opere dirette e prive di fronzoli. Opere che rifuggono da alte derive poetiche, da facili cadute nel romanticismo o nell’esistenzialismo bohemièn, dai voli pindarici di coloro che parlano della vita cercando di osservarne e catturarne il flusso attraverso la TV o il Web.
No. L’umiltà di Parisi lo ha dapprima spinto ad accettare, giustamente, la realizzazione di opere su commissione che gli consentissero di individuare i suoi personali limiti e le sue potenzialità, confluenti nella capacità di “comunicare cose” a un pubblico vasto ed eterogeneo. Da qui il valore di libri come Chernobyl o Il sequestro Moro (editi da BeccoGiallo), incursioni nella storia recente del mondo e nelle tragedie italiane che per l’artista di origini catanesi valgono quanto un vero e proprio manifesto d’intenti: eventi reali, chiarezza d’esposizione, perseguimento della verità attraverso un limpido ragionamento artistico.
Tutti elementi che rendono se possibile ancora più preziosa la biografia del musicista jazz John Coltrane che Parisi ha pubblicato l’anno scorso con la casa editrice Black Velvet.
In Coltrane, l’esigenza primaria del cartoonist è quella di veicolare i punti salienti della tormentata esistenza del jazzista mettendoli in rapporto con la complessità delle sue composizioni. Da qui la scelta di dividere il libro in quattro capitoli -in stretto contrappunto alle quattro tracce che compongono il fondamentale disco A love supreme– e di “comporre” la narrazione mettendo in sequenza dei segmenti incardinati su due pagine affiancate. Segmenti che, però, non seguono una linea temporale unitaria, sovrapponendosi in una studiata teoria di salti cronologici.
Per Parisi, tuttavia, Coltrane non rappresenta affatto uno sfoggio di perizia tecnica applicato a un tessuto biografico e musicale che, per così dire, “si presta al gioco”. Ancora una volta, anzi, le sue linee nude e crude -dove convivono echi di Jacques Tardi, José Muñoz, David Mazzucchelli e, perché no?, talvolta addirittura il gusto per le ombreggiature sporche di Philippe Vuillemin- cercano di ricreare un universo completo che trascende il particolare. Perché a Parisi non interessa affrontare soltanto la dimensione umana e psicologica del protagonista, ma anche il suo vivido rapporto con le vicende sociali e storiche nel quale è immerso: quelle di un’America in fase di trasformazione, sospesa tra lugubri sirene reazionarie, simboleggiate dal Ku Klux Klan, e l’ansia di rinnovamento incarnata dai fratelli Kennedy.
Racconto, universalità, ritmo, realismo, verità, arte: le tonalità di grigio delle tavole disegnate da Parisi donano profondità spaziale alle illustrazioni per poi farle deflagrare in una visualizzazione vertiginosa, reale fino a risultare -paradossalmente- straniante, dell’anima dei personaggi. Non stupisce, quindi, che il cartoonist -nella sua ansia di cogliere e decifrare, distillandoli, i fatti concreti della vita- abbia sentito il bisogno di far vibrare ulteriormente il suo tratto, le sue raffigurazioni, prestandosi a una performance multimediale che integra le sonorità del jazz a un’esibizione live di arte figurativa. Un punto d’arrivo necessario che fornisce a Parisi un nuovo filtro attraverso il quale cogliere il flusso e i fenomeni dell’esperienza umana.