Gipi: lezione di fumetto

Gipi: lezione di fumetto

gipi12Quello che segue è un estratto da Gipi. Lo straordinario e il quotidiano di un narratore per immagini di Alberto Casiraghi (Coniglio Editore, 2008), libro in cui il fumettista pisano racconta il suo lavoro di disegnatore e di narratore, dagli esordi fino al suo ultimo, acclamatissimo La mia vita disegnata male.

Gipi e Alberto Casiraghi saranno protagonisti di un incontro pubblico che si terrà domenica 8 marzo presso la Liberia Feltrinelli Ravegnana.

Hai sottolineato che per te è importante prima di tutto tenere unita la narrazione. Hai anche citato Pazienza come tuo riferimento, con il quale per me hai in comune la vulcanicità, l’improvvisazione, ma avendo sempre presente quello che devi fare e dove andare a parare.
E’ anche per questo che ho problemi a parlare di tecnica in termini di carta e penna. Per me la tecnica è veramente a monte e non me lo invento io. Avevo diciotto anni quando me lo disse Pazienza e per fortuna l’ho ritrovato su You Tube e me lo sono riguardato anche l’altro giorno.
Il lavoro sta nella ricerca dell’onestà. Che vuol dire darsi delle regole per cui lavori soltanto quando hai una spinta profonda per raccontare un argomento. Per me questa è tecnica. Arrivare a capire cosa davvero ti interessa, se il pensiero che hai è un pensiero originale oppure se è camuffato, se te la stai raccontando, se ti stai atteggiando: tutto ciò richiede disciplina. E’ come dire che nel karate la tecnica sta solo nel movimento delle braccia. Non è così.
Per cui, come si crea una storia che funzioni, nel senso che non ti perdi nel raccontarla, che non lasci il lettore con il sapore in bocca d’incompiuto? Devi avere qualcosa da dire. E come fai a sapere di avere un qualcosa da dire? Devi avere una capacità di introspezione spietata. Non ti deve bastare l’aver trovato un buon intreccio, un buon colpo di scena o un personaggio che ti affascina, perché questo per il tipo di lavoro come il mio (ma parlo solo per me) non è sufficiente.
Se hai un’idea che ti spinge, questa racchiuderà la tecnica fisica del lavoro, la scansione del tempo, il tipo di trama e l’ambientazione. Perché se ho l’esigenza di parlare, chessò, del potere che schiaccia i poveri e i deboli non sono obbligato ad ambientarlo a Roma nel 2008, posso decidere tranquillamente di avere un’ambientazione settecentesca o medievale. Se io sento davvero questa questione e davvero è un problema sul quale voglio seriamente riflettere, e se possibile far riflettere altri, posso prendere la storia e adattarla su qualsiasi tipo di struttura, perché comunque arriverà a parlare di quell’argomento. E se sono stato sufficientemente intransigente con me stesso e sono arrivato a un punto in cui sono sicuro che questa esigenza di narrazione è reale, tutte le parti del racconto le andranno dietro.
Ieri sera leggevo di quel tizio che fece l’attentato al Savoia che una volta arrestato lo rinchiusero in una cella alta un metro e quaranta per venticinque anni e misero in manicomio criminale tutta la sua famiglia. Mi sono ritrovato a ragionare che mi piacerebbe trarne una storia, e ci pensavo anche stamane quando mi sono svegliato, eppure qualcuno potrebbe dire “ah, com’è lontana dalle storie gipiane!”. Invece no, quel tema lo sento presente ora. La disparità tra potenti e non, e la crudeltà di chi detiene il potere, è una cosa che credo di sentire in modo abbastanza sincero dentro di me. Quindi potrei lavorare su un tipo di storia del genere, biografica di un personaggio mai conosciuto – io, che ho sempre parlato della rappresentazione della realtà che vedo con i miei occhi – perché la cosa più importante a monte è l’esigenza profonda e sincera di trattare un argomento. Che purtroppo, per me non ha niente a che vedere con l’intrattenimento.
Ma se la mia esigenza è reale sono costretto a scendere su un piano di comunicazione semplice, lineare, comprensibile da tutti. Perché non voglio che la mia storia venga compresa solo da me e da altri tre amici.

E per essere sicuri che il lettore comprenda quello che vuoi dire come fai?
Bisogna essere umili, pensare che forse alcune delle tue scelte più radicali e artistoidi sono sacrificabili e che se devi scegliere tra una cosa che tanto ti affascina ma che rischia di essere poco comprensibile e una cosa che ti affascina meno ma che è sicuramente comprensibile scegli sempre la seconda. Non devi dimostrare al mondo che sei un’artista.
Io un pensiero al lettore lo rivolgo sempre, anche in una storia pazza e squinternata come quella su cui sto lavorando ora. Mi chiedo sempre: “questa parte che sto scrivendo è sincera o è un meccanismo automatico che la mia memoria ha messo in moto e racconto queste parti perché sono quelle che sicuramente faranno più effetto? Quando capisco che la parte che sto scrivendo è sincera mi chiedo: “qual è il modo più semplice perché questa cosa venga capita da chi non ha vissuto le mie esperienze, da chi viene da un ambiente sociale completamente diverso?” Sacrificare un po’ di egocentrismo per la comprensione altrui – tanto poi se le tue storie piacciono ti fanno i complimenti e quindi l’egocentrismo ritorna alle stelle.
Un po’ di mestiere poi ci vuole, è chiaro, come ci vuole la predisposizione alla comunicazione.

Hai fatto delle letture pubbliche del tuo ultimo lavoro, “La mia vita disegnata male” a tuoi amici. In questo modo hai una risposta abbastanza immediata su ciò che non funziona. Ti è mai capitato che qualcuno non capisse qualcosa e di conseguenza abbia dovuto rimaneggiare la storia?
No. Non perché sono bravo, ma perché metà di me è talmente insicura di quello che faccio e mi pongo talmente tante domande che è difficile che vada a leggere un mio fumetto a qualcuno se prima non è stato letto dalla parte più scema di me. Anche perché un po’ soffrirei se qualcuno mi dicesse che non capisce un passaggio. Ne “La mia vita disegnata male” ci sono pagine che lette singolarmente non sarebbero comprensibili, come è capitato alla mia ragazza che leggendo una pagina che le avevo mandato ha voluto vedere quella dopo perché non capiva. Già questo mi ha inquietato. Però è possibile che una pagina presa da sola non stia in piedi, anche se sarebbe meglio di sì. E allora la riprendi, la riguardi e dici “forse se questa frase la scrivessi in questo modo sarebbe più chiara”. Insomma è tutta una questione di lavorare sulla semplificazione, ridurre le cose all’osso e non godere delle proprie parole, non godere della propria scrittura se per la sua funzionalità.
Il vero piacere è quello che ho provato a Bologna l’altro giorno, leggendo venticinque pagine con gente che ride o si commuove, senza che io abbia fatto il poeta – e lo potrei fare, volendo.
La cosa che mi addolora di Pazienza è che non lo possano pubblicare in Francia, perché qui non potrebbero capirlo. Io invece, che mi dico “oggi questa casa editrice, domani il mondo”, alla questione della traduzione tengo molto e mi muovo coi piedi di piombo. Riscriverò a mano tutta la versione francese perché non voglio un lettering fatto da un altro. Dovrò sudare riscrivendo 160 pagine, con tutti questi accenti francesi, con l’errore sempre dietro l’angolo.

Diventare un autore di fumetti ti ha cambiato anche come persona?
Mi ha cambiato completamente. Faccio una vita che non ha niente a che fare con quella che facevo prima e sono un privilegiato perché mi sono andate abbastanza bene le cose per cui posso scegliere quali lavori fare e quali no. Mi ha cambiato tutto, completamente, come mai mi sarei aspettato, ma se ci penso bene non è altro che il sogno che avevo quando leggevo Cannibale o Frigidaire, ossia cercare di campare inventando storie e disegni.

L’idea del fumettista che avevi da ragazzo è simile a quella che poi hai scoperto?
E’ esattamente la stessa. Per snobismo o presunzione non ho mai pensato di diventare un disegnatore di una serie, nemmeno quando avevo vent’anni. Se un giorno avessi trovato la mia voce, la mia personale scrittura, le storie che avrei raccontato sarebbero state le mie, fatte con le mie parole, con la mia forma grafica.

Gipi (Gian Alfonso Pacinotti)
(Pisa, 1963) dopo aver lavorato come illustratore per l’editoria e la pubblicità, esordisce nel 1994 sul settimanale «Cuore». Le sue prime storie a fumetti escono su «Blue» dal 1997 al 2000, mentre nel 2002 inizia la collaborazione con Coconino Press, che curerà le edizioni italiane di tutti i suoi libri da Esterno Notte (2003) a La mia vita disegnata male (2008). Cura una rubrica disegnata per «Internazionale». Pubblicato in tutta Europa e negli Stati Uniti, è uno dei più premiati, e imitati, autori contemporanei. Il suo blog è http://giannigipi.blogspot.com.

Alberto Casiraghi (1968) è critico di fumetti per il web-magazine «LoSpazioBianco». Ha partecipato alla raccolta di saggi Watchmen: 20 anni dopo (Lavieri, 2006) ed è tra i promotori della 24 Hour Italy Comics, maratona fumettistica che ha visto partecipare finora circa 200 fumettisti.

GIPI. LEZIONI DI FUMETTO

Incontro con Gipi e Alberto Casiraghi

Domenica 8 marzo – H 16.30

Libreria Feltrinelli – Ravegnana

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