Anna Politkovskaja e il dovere della testimonianza: intervista a Francesco Matteuzzi

Anna Politkovskaja e il dovere della testimonianza: intervista a Francesco Matteuzzi

Intervista originariamente pubblicata su Lospaziobianco.it.

Per cominciare e conoscerci meglio: che fumetti apprezzi e leggi di solito?
Sono cresciuto con il fumetto italiano, principalmente quello popolare ma non solo. Poi con gli anni ho scoperto anche gli altri mercati, anche se forse sono rimasto un po’ indietro per quanto riguarda il versante giapponese. Faccio qualche titolo delle cose che sto apprezzando in questo periodo: Valter Buio per il mercato italiano, Scalped per l’America, Murena per la Francia… e Dago, fingendo di poterlo far passare per sudamericano. Senza contare i libri autoconclusivi e le strisce, di cui sono un vero fan, ma qui se inizio a fare un elenco non finiamo più.

Com’è nato il progetto del libro, lo avevi ideato già da tempo o è frutto di una proposta di Becco Giallo?
L’idea è stata mia, ma devo dire che in casa editrice è stata subito accolta con grande interesse. Quella di Anna Politkovskaja è una figura molto affascinante, per cui quando ho proposto il progetto non ho dovuto sforzarmi per convincere l’editore della necessità di fare un libro su questo argomento, perché se ne era già accorto da solo.

Qual è stato il lavoro di editing di Becco Giallo? Quali sono state le direttive e quali le indicazioni? O hai agito in totale libertà?
In libertà controllata, diciamo così, nel senso che nel corso della lavorazione io ed Elisabetta Benfatto siamo stati seguiti con grande attenzione da Federico Zaghis, con il quale ci sentivamo praticamente ogni giorno per discutere del libro. Federico è stato un po’ il nostro allenatore, suggerendo le strategie di lavoro, commentando le pagine già scritte e motivandoci in continuazione a svolgere il miglior lavoro possibile.

Come hai strutturato la necessariamente approfondita ricerca che dev’esser stata alla base dell’opera? Oltre ai libri della Politkovskaja, quali testi o articoli ti sono stati utili?
I suoi libri sono stati la parte più massiccia della documentazione, anche perché nelle sue inchieste Anna ha parlato di argomenti che praticamente nessun altro ha mai affrontato. Oltre a questi, indispensabili, anche da un punto di vista iconografico, sono stati i documentari Letter to Anna di Eric Bergkraut, pubblicato da Internazionale, e 211: Anna, di Paolo Serbandini e Giovanna Massimetti, del quale al momento – purtroppo – non esiste però alcuna versione in commercio.
Segnalo poi il libro Anna è viva di Andrea Riscassi, pubblicato da Sonda, oltre a una serie di articoli recuperati da giornali e riviste che nemmeno io adesso saprei ben quantificare.

Hai trovato difficoltà a reperire alcune informazioni? quale è stato il canale migliore che hai trovato?
Le principali difficoltà sono state quelle di carattere iconografico, per le quali ci siamo affidati alle fotografie e ai documentari che ho citato. In alcuni casi, tuttavia, siamo stati costretti a fare delle ricostruzioni plausibili, per le situazioni delle quali non erano disponibili documenti precisi. Mi riferisco, per esempio, a quello che è successo di preciso dentro al teatro Dubrovka, quando Anna è entrata per mediare con i terroristi, o ad altre piccole cose che abbiamo dovuto ricostruire sulla base dello scarso materiale esistente.

La realizzazione del fumetto porta a fare delle scelte drastiche; fra ciò che hai tenuto fuori cosa ti farebbe piacere citare qui?
La prima cosa che mi viene in mente è di certo la vicenda di Aleksandr Litvinenko, un ex agente del Kgb. Mi sarebbe piaciuto inserirla perché esemplifica molto bene il comportamento del potere, del vertice, in Russia, ma dal momento che non riguarda Anna in modo diretto è stato scelto di lasciarla fuori dal racconto a fumetti, anche se l’abbiamo comunque inserita in appendice, nella sezione relativa alla cronologia degli eventi. Insomma, un paio di settimane dopo l’omicidio di Anna, nel corso di un incontro pubblico Litvinenko dichiarò di sapere chi avesse ordinato la morte di Anna. Disse: “Una giornalista del suo livello non può essere uccisa senza l’assenso del vertice. Putin l’ha fatta uccidere.” Un’accusa molto chiara e diretta; bene, neanche un mese dopo Litvinenko è morto a causa di un avvelenamento da Polonio 14, per mano di un ex collega dei servizi segreti.
Una bella coincidenza, no?

Far parlare la Politkovskaja in prima persona sembra finalizzato a creare maggiore partecipazione emotiva; era questa la tua intenzione?
Non solo. Come dicevo, la principale fonte di documentazione che ho avuto sono stati i suoi articoli e reportage, quindi mi sembrava giusto che fosse lei a parlare in prima persona, a prendere per mano il lettore e raccontargli quello che è successo. La parte complicata è stata entrare nella sua testa e cercare di parlare come avrebbe fatto lei, e per farlo mi sono basato sia sui suoi scritti che sui racconti delle persone che l’hanno conosciuta. Le operazioni di questo tipo sono pericolose: c’è sempre il rischio di far dire alla persona in questione frasi che nella realtà non pronuncerebbe mai. Da quello che mi dicono, però, sembra che la scelta sia stata apprezzata.

Hai scelto una narrazione lineare, consecutiva e di chiaro rapporto causa/effetto (denuncia / omicidio); dritto al punto suggerendo ampiamente anche i mandanti (morali?) dell’omicidio. Per scarso interesse verso costruzioni articolate e per caricare anche qui emotivamente il racconto?
La verità è che, in qualsiasi tipo di narrazione, e quindi anche nel fumetto, la forma è sostanza. È il modo in cui le cose vengono raccontate, insieme alle cose stesse, che compongono la storia, e da questo punto di vista ogni storia ha necessità diverse. Io in realtà amo la sperimentazione del linguaggio, ma in questo caso una forma meno lineare non credo che avrebbe aiutato la narrazione. Poi c’è anche un altro discorso da fare: con questo libro abbiamo raccontato la vita di una persona reale, e quando si parla di cose vere bisogna portare rispetto ai fatti e a coloro che ne sono e ne sono stati coinvolti. In questo senso, non sono sicuro che una narrazione a effetto sarebbe stata altrettanto rispettosa.
Quanto è stato difficile per te, se lo è stato, mantenersi distaccati e seppellire l’indignazione (lo schifo) di fronte a storie come quelle della Politkovskaja dovendone scrivere?
È una delle prime regole del giornalismo: la presenza di chi scrive non si deve avvertire, bisogna che siano i fatti a parlare. Dopodiché sta al lettore interpretarli e trarre le sue conclusioni. Quando si fa un lavoro di questo tipo l’obiettivo ultimo deve essere informare, non esprimere giudizi di merito. Poi è ovvio che dall’opera trasparirà la posizione dell’autore riguardo all’argomento di cui sta parlando, ma lo scopo dovrebbe essere quello di diffondere notizie, non di fare propaganda. E non lasciamoci ingannare dal fatto che oggi i giornalisti indipendenti sono sempre meno e sempre più quelli asserviti al padrone, perché è una situazione anomala, non dovrebbe essere così. Anzi, dovremmo ripeterlo tutti quanti come un mantra: Non. Dovrebbe. Essere. Così.

Hai girato e stai girando molto per presentare il libro? Come hai recepito il rapporto con il pubblico più generalista? Immagino che un tema come questo abbia interessato un pubblico eterogeneo.
Presentazioni per il momento non ne abbiamo fatte moltissime, ma direi che l’accoglienza è stata straordinaria: evidentemente l’argomento interessa e il linguaggio usato per trattarlo viene percepito come quello giusto. In un commento letto sul web qualcuno ha addirittura definito il fumetto come ideale per raccontare una storia di questo tipo. L’esperienza più sorprendente che ci è capitata, comunque, è stato l’incontro alla facoltà di Scienze di Comunicazione dell’Università di Bologna. Eravamo pronti al peggio, ci avevano detto che quello degli studenti universitari è un pubblico difficile, col quale è complicato riuscire interagire. E invece ci hanno tempestati di domande e alla fine quasi non ci volevano lasciare andar via. Segno che il tema interessa e tocca corde molto profonde.

Che valenza pensi stia ottenendo nel mondo il cosiddetto graphic journalism?
Si tratta di un modo di fare giornalismo che fortunatamente sta prendendo sempre più piede, e per fortuna anche i mezzi di informazione tradizionali si stanno rendendo conto della forza del fumetto. Il vero problema, che però alla lunga potrebbe diventare il punto di forza del giornalismo a fumetti, è che sta ottenendo popolarità in un momento in cui è il giornalismo nel suo complesso a essere in crisi. Stiamo a vedere come si svilupperanno le cose. Io continuo a fare il tifo.

Il giornalismo di inchiesta in un paese di piena democrazia dipinta conduce alla morte; il processo seguente non porta alla verità. Siamo distanti da queste realtà o talvolta pericolosamente vicini?
Non so perché, ma questa mi suona come una domanda retorica… Nel 2008 l’Italia era al sessantacinquesimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa. Solo l’anno successivo era scesa di otto posizioni, passando dalla classificazione di Libero a quella di Semilibero. Per adesso i giornalisti scomodi vengono allontanati dai giornali e dalle televisioni, si cerca di
screditarli e li si minaccia. Li si ricatta. E da una situazione del genere a una in cui si spara il passo non è lungo come potrebbe sembrare: basta che chi è al potere si decida una volta per tutte a seguire l’esempio dei suoi amichetti siciliani, ché tanto l’impunità è assicurata.


Francesco Matteuzzi e Elisabetta Benfatto saranno a BilBOlBul
mercoledì 2 marzo alle ore 17:00
presso VANILIA & COMICS
Interverranno Andrea Bonzi e Marco Nardini

Riferimenti:
Becco Giallo: www.beccogiallo.it
Francesco Matteuzzi: francescomatteuzzi.blogspot.com
Elisabetta Benfatto: elisabettabenfatto.blogspot.com

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