Pratt, gli Scorpioni e il Mal d’Africa
Al loro esordio con “Bonerest” guadagnano in breve l’etichetta di «Vertigo italiani»; poi il loro sodalizio professionale si consolida con nuovi titoli realizzati all’interno dello studio Innocent Victim e con prestigiose collaborazioni oltreoceano: DC, Vertigo, Marvel. Finché hanno l’onore di realizzare una storia dei prattiani “Scorpioni del Deserto” e di recarsi in Etiopia per documentarsi e fare propria l’atmosfera delle opere del Maestro. Matteo Casali e Giuseppe Camuncoli raccontano questa esperienza davvero speciale e il modo in cui ha influito sul loro lavoro.
Un fumetto su “Gli Scorpioni del Deserto”, un viaggio in Africa, un film-documentario. Come è nato tutto ciò?
Giuseppe Camuncoli: Tutto nasce più o meno alla fiera di Lucca del 2005, anno in cui Gabriele Dell’Otto mi presentò Patrizia Zanotti, direttrice di Lizard e collaboratrice di Hugo Pratt. Chiacchierando chiacchierando, arrivammo quasi naturalmente a parlare di eventuali progetti e collaborazioni, senza entrare troppo nel dettaglio. Fu solo qualche tempo dopo che ci risentimmo, e che vennero gettate le basi per la collaborazione con Matteo Casali su “Gli Scorpioni del Deserto”. Ricordo che all’inizio le tempistiche non mi avrebbero permesso di disegnare l’albo, ma che poi ci accordammo per posticipare l’uscita editoriale, in modo da darmi il tempo di poter partecipare al progetto. Fui ovviamente davvero colpito dal fatto che si stesse concretizzando un’opportunità lavorativa e creativa che non mi sarei mai immaginato: portare il mio contributo all’universo prattiano in veste d’autore. Roba da non credere.
Matteo Casali: Io conobbi Patrizia un po’ più tardi, al Festival di Angoulême del 2006, e fu un incontro informale e piacevole, non parlammo di lavoro. Qualche mese dopo ricevetti una chiamata da Cong, la società fondata da Pratt stesso per tutelare e gestire il suo patrimonio fumettistico, e mi venne chiesto se fossi stato interessato a scrivere un nuovo capitolo della saga de “Gli Scorpioni del Deserto”. Potete immaginare quale fu la mia entusiastica risposta…
Quando si è svolto esattamente il vostro viaggio e quali sono state le sue tappe principali?
MC: Del viaggio in Etiopia, a visitare i luoghi che furono il teatro delle vicende di Koinsky e soci, si parlava già dai primi contatti, ma fu solo a Lucca nel 2006 che ci venne comunicata la data ufficiale di partenza, prevista da lى a meno di un mese, per i primi di dicembre – infatti non facemmo in tempo ad effettuare nessuna delle vaccinazioni preventive previste per chi viaggia nel Corno d’Africa. Partimmo quindi per un viaggio affascinante, non privo di difficoltà, in compagnia tra gli altri del fotografo Marco D’Anna, del regista Stefano Knuchel (che girٍ parte del materiale di quello che sarebbe poi diventato “Hugo in Africa” proprio durante quei dodici giorni), dello scrittore e giornalista Jean-Claude Guilbert, storico amico di Pratt, conoscitore del territorio… e sergente di ferro per tutto il tragitto da Addis Abeba a Gibuti (e ritorno).
GC: Infatti c’è un frammento del film in cui mi si vede dormire della grossa in primo piano, ed è una vera testimonianza delle levatacce a cui “Gunny” Guilbert ci costringeva ogni mattina per approfittare della luce e girare più riprese possibili. Aldilà degli aneddoti divertenti, è stato davvero un viaggio intenso, che ci ha portato su gran parte dei luoghi e delle scene raccontati da Pratt nella sua opera. Giusto per fare qualche esempio, oltre ai già citati Addis Abeba e Gibuti, abbiamo visitato lo sperduto fortino di Moulhoulé (in cui si svolge “Dry Martini Parlor”), e il famoso Caffè de la Gare di Gibuti, in cui Pratt amava passare il suo tempo, e che sta proprio di fronte alla stazione dei treni da cui parte Koinsky in “Brise de Mer”, l’ultimo episodio realizzato da Pratt. Tutte queste suggestioni, insieme a quelle nuove provate visitando posti come Harar e Awash, che abbiamo prontamente inserito nel nostro episodio de “Gli Scorpioni”, hanno contribuito a rendere questa esperienza lavorativa e avventurosa davvero impareggiabile.
Il film definitivo che presenterete a BilBOlBul è più o meno quello che avevate immaginato di realizzare quando vi siete imbarcati in questa avventura, oppure il risultato finale è diverso dalle aspettative iniziali?
MC: Il regista Stefano Knuchel ha cambiato in corso d’opera l’approccio inizialmente previsto per quello che avrebbe potuto diventare un semplice documentario/resoconto della nostra esperienza di viaggio sulle tracce degli Scorpioni del Deserto. In diverse occasioni, come nel pittoresco mercato di Harar, abbiamo girato sequenze con vere e proprie interviste a noi, futuri autori del nuovo episodio della serie, poi scartate in fase di montaggio, quando “Hugo in Africa” ha preso la forma di un vero e proprio film sul rapporto tra il Maestro e la terra che tanto lo aveva segnato nel corso della sua vita, e che amava profondamente. Del resto Stefano tornٍ una seconda volta, sempre in compagnia di Guilbert, per girare nuovo materiale più in linea con l’impostazione più narrativa che stava dando al suo film.
GC: In effetti il risultato finale è diverso dall’idea che ci eravamo fatti durante le riprese e la nostra esperienza africana (anche se molte bellissime scene sono state inserite), ma a mio parere è ancora migliore di quello che mi sarei aspettato. “Hugo in Africa” è un film molto profondo, denso e affascinante, sia visivamente che a livello contenutistico, e che sa far riflettere anche lo spettatore non appassionato di fumetti o dell’universo prattiano.
Decio Canzio ha definito Koinsky un uomo dalla spavalderia “fredda, lucida, cartesiana; […] non una sbavatura nel suo modo di agire, non una parola di troppo, non una scivolata di gusto. Un’impeccabilità quasi disumana”. Come vi siete avvicinati a un personaggio tanto granitico, con quale “filosofia” l’avete affrontato?
MC: Il rispetto per il personaggio di Koinsky è sempre andato di pari passo con il rispetto dell’opera originale di Pratt. Siamo anche stati affascinati dall’interesse che il maestro aveva per le vicende umane e personali di tutti coloro che si trovano a vivere in uno scenario di guerra – cosa che lui stesso aveva provato sulla propria pelle in molti modi, inclusa la detenzione in un campo di prigionia a Dire Dawa. Il “nostro” Koinsky potrebbe forse apparire più umano che in altre occasioni, magari più simile a quello delle prime storie de “Gli Scorpioni del Deserto”, ma questo perché siamo sempre stati ben consapevoli che non sono le cicatrici che il capitano polacco porta sul suo volto a dargli un’aria cosى freddamente letale. Le più profonde, quelle che lo hanno plasmato facendone una perfetta e lucida “macchina da guerra” si annidano nei ricordi di un passato di cui parla raramente, senza cosى scoprire mai le sue carte.
Oltre a Koinsky, c’è un altro personaggio chiave in “Quattro sassi nel fuoco”: Cush, l’amico di Corto Maltese. Un piccolo “mostro sacro” anche lui?
GC: L’idea di tirare in ballo Cush è arrivata in maniera quasi naturale. Rileggendo tutti gli episodi degli “Scorpioni” di Pratt, e anche quello di Wazem, in cui tornavano in scena personaggi come Ghula, il Soldato Gallina e De la Motte, ho pensato di getto che Cush sarebbe stato perfetto per la nostra storia. Dopotutto, oltre ad essere un altro personaggio che Pratt ha resto indimenticabile, è l’anello di congiunzione tra la saga di Corto Maltese e quella degli “Scorpioni”, e questo si rende ancora più evidente nel “prequel” che abbiamo realizzato per il magazine “Specchio” della Stampa. Inoltre, è davvero fantastico da disegnare. Devo dire che in questi anni, sia in Francia che in Italia, a livello di disegni e sketch, le richieste dei lettori sono forse state più a favore di Cush che del rude Cap. Koinsky. E questo non fa che confermare la bontà della scelta, condivisa da tutti, di fare riapparire il Beni Amer più famoso dei fumetti.
MC: Non ho molto da aggiungere. Cush è un personaggio strepitoso da scrivere. Nell’approfondire la mia conoscenza del personaggio, anche attraverso la rilettura de “Le Etiopiche” di Corto Maltese, ho riscoperto tratti caratteriali e aspetti del suo passato che hanno giocato un ruolo fondamentale nella scrittura di “Quattro Sassi Nel Fuoco”.
Giuseppe, hai dovuto un po’ adattare il tuo stile a quello prattiano? Io ho avuto l’impressione che in “Quattro sassi nel fuoco” il suo tratto sia più sintetico, meno morbido rispetto ad altri suoi fumetti.
GC: Sicuramente. Soprattutto a livello di tagli, di griglia della pagina, di gestualità dei volti e dei corpi, di neri, e anche di atmosfere. ب stato un processo non troppo semplice, ma nemmeno complicatissimo. Del resto, come dico sempre, Pratt ha avuto un’influenza fortissima sullo sviluppo del mio segno: da lui ho da sempre cercato di interiorizzare l’eleganza, la sintesi, certi profili, certi sguardi intensi, e poi il mio stile non è mai stato né troppo realistico né troppo dettagliato. In questo caso ho cercato di rarefare ancora di più le linee e il tratto, e di trovare pian piano una mia personale sintesi tra quello che avrei fatto normalmente io e quello che forse avrebbe fatto Pratt. Devo dire che in questo la sceneggiatura di Matteo mi ha aiutato non poco, avendo già essa un taglio molto preciso e rigoroso. Da “Scorpione del Deserto”, quasi.
Tocca a Matteo, allora: hai cercato di lasciarti ispirare dalla prosa asciutta e diretta di Pratt o hai preferito escludere questa ipotesi?
MC: Non in modo cosciente. La mia preparazione alla scrittura del nostro episodio de “Gli Scorpioni del Deserto” è stata una rilettura attenta del lavoro di Pratt, ma la lavorazione vera e propria l’ho affrontata come affronto ogni sceneggiatura, e cioè “gettandomi” nella storia. Non c’è mai stato un tentativo di imitazione di canoni o di reinterpretazione forzata, ho invece lasciato che le suggestioni accumulate durante il viaggio e la lettura prendessero forma sulla pagina. ب stata una vera soddisfazione sentir dire dai lettori e dai fan più sfegatati del Maestro che avevo scritto una storia “molto prattiana”, che avevano apprezzato e che io avevo scritto in maniera molto naturale. ب stata senza dubbio significativa la supervisione di Patrizia Zanotti e di Cong per limare eventuali sbavature e rendere il tutto più compatto.
I vostri lavori precedenti (“Bonerest”, le produzioni Innocent Victim, DC, Vertigo, Marvel) appartengono a generi lontani dall’opera di Pratt: il viaggio in Africa vi è stato utile ad immergervi nell’atmosfera degli “Scorpioni” prattiani?
GC: Senza dubbio. Era la prima volta che ci capitava di fare un viaggio di documentazione per un fumetto, proprio come faceva sempre il Maestro di Malamocco, e devo dire che fa la differenza. Non solo a livello di suggestioni visive (volti, luoghi, colori, forme), ma anche per quel che riguarda le situazioni e le emozioni provate durante la nostra ricognizione africana. Ogni volta che capitava qualcosa di forte, di insolito, iniziavamo subito a pensare se poteva funzionare ed essere integrato nella struttura (già pianificata prima di partire) della storia di “Quattro Sassi Nel Fuoco”. Se non avessimo visto le iene nella notte di Harar, o la pioggia sugli altopiani etiopici, non le avremmo di sicuro mai inserite nel nostro fumetto. Possono sembrare piccoli dettagli, ma per noi, ancora carichi di meraviglie al rientro in Italia, si tratta invece di episodi fondamentali, che ancora oggi assumono un connotato ancora più profondo.
MC: Un’altra cosa che è stata significativa per noi, ma che potrebbe sfuggire ai più, è stato il confrontarsi con la “voce” del Maestro. Mentre per i nostri lavori precedenti, autoriali o su commissione, ci si confrontava con il lavoro di tanti professionisti venuti prima di noi, o unicamente con la nostra personale visione, “Gli Scorpioni del Deserto” avevano sempre avuto quasi esclusivamente la voce e la mano di Hugo Pratt a dare loro vita. E questa è stata sicuramente una dimensione di lavoro molto diversa, un’esperienza che ci ha arricchito come autori e che, ancora una volta, il viaggio in Africa ha contribuito a rendere speciale.
“Hugo in Africa” verrà presentato a BilBOlBul. Dopodiché, quale destino lo attende?
GC: Beh, questa è una domanda che giriamo volentieri a Stefano Knuchel, visto che è lui che si sta occupando della promozione della pellicola – noi qui in fondo non siamo che umili “attori”, peraltro nuovi del mestiere. Quello che posso dire è che il film è stato presentato l’anno scorso anche al Festival del Cinema di Venezia, in concorso nella sezione “Orizzonti”, e che ha suscitato fin da subito grandissimi consensi tra gli spettatori, vincendo anche un premio della critica davvero meritato. Credo che Stefano stia operando al meglio delle sue forze per portare la pellicola nelle sale, sia in Italia che all’estero, e in tutta sincerità penso proprio che il film lo meriti. Per ora siamo tutti molto contenti sia del passaggio veneziano, sia della presentazione bolognese che BilBOlBul ha organizzato.
Dopo questo viaggio siete stati colpiti dal Mal d’Africa, o il fascino del Continente Nero vi ha risparmiati?
MC: Lasciami dire che il nostro non è stato un viaggio “rilassante”. Ore e ore di viaggio, lunghe camminate in ambienti non sempre facili, usi e costumi da rispettare e le levatacce a cui ci obbligava il nostro “sergente di ferro” Guilbert.
Ma è stata un’esperienza incredibile. Luoghi dalla bellezza indicibile, dove la vita è dura e dove donne e uomini vivono con una dignità che raramente ho incontrato altrove. Incrociare lungo la strada pastori Afar armati di vecchi kalashnikov dallo sguardo fiero e subito dopo veder sorridere un gruppo di bambini a cui regali un semplice pennarello sono sensazioni che nessun altro posto al mondo puٍ regalare, credo. Dalla magia del lago salato di Assal alla pericolosa frontiera tra Etiopia e Gibuti, tutto aveva il sapore dell’avventura per noi, in una terra antica, ricca di storia e tradizioni, vera e propria culla di un’umanità antica e stupefacente. E sى, il Mal d’Africa non mi ha risparmiato, ormai dovrebbe essere chiaro per tutti… l’ho avvertito subito dopo l’atterraggio, una volta tornati a Roma. E custodisco ancora gelosamente i ricordi, il diario del mio viaggio e le suggestioni che un viaggio difficile, a tratti duro e bellissimo allo stesso tempo mi ha lasciato. Ora mi è chiaro perché Pratt tornasse spesso in Africa… e anche in questo caso sarebbe bello poter seguire le orme del maestro.